Del gusto cross-culturale, il Caso della guida Michelin
la guida Michelin dedicata ad Hong Kong e Macao
Incuriosita dal precedente post scritto in base al lavoro svolto da Thomas Miles ho voluto approfondire meglio la questione relativa alla
percezione del gusto in un'ottica cross-culturale, stavolta dedicata al cibo in generale e non soltanto al vino. Ho fatto una ricerca e mi sono imbattuta in un
vecchio post di "Cognition and Culture" che analizzava in tal chiave di lettura l'uscita in libreria dell'edizione della guida Michelin dedicata ad Hong Kong e Macao. La domanda che veniva posta è se esistesse una
guida Michelin valida universalmente... Mi sono subito intrigata! Ma qual'è, intanto, la genesi di questa famosa guida? Dopo la Prima Guerra Mondiale, si diffuse in Europa l'automobile: la tratta Parigi-Nizza, sulle strade francesi 6 e 7, divenne la più frequentata, stimolando la nascita di numerosi ristoranti lungo il percorso. Nel 1900 la Michelin, casa produttrice di pneumatici, pensò di stimolare il mercato dell'automobile creando una guida ai servizi per gli automobilisti, in regalo a chi acquistava pneumatici, con indicazioni di benzinai, gommisti, meccanici, ma anche monumenti e curiosità. Solo nel 1920 vennero aggiunti gli indirizzi dei migliori ristoranti e hotel in tutto il territorio francese, e la guida fu venduta come prodotto autonomo. Nacque anche la mascotte Bibendum (il famoso "omino Michelin"). Nel 1926 venne introdotta la prima stella per segnalare i migliori ristoranti di provincia, e con l'edizione 1931 si sviluppa il sistema delle tre stelle, esteso anche ai locali parigini. Da qui in poi l'evoluzione di questa guida non conosce limiti né di paese né di lingua. Negli ultimi anni poi, alla valutazione simbolica e numerica del ristorante si sono aggiunte descrizioni coincise dell'ambiente e dei piatti più originali e carte del paese con indicazione dei ristoranti stellati. Fino ad ora la Michelin ha limitato il suo campo di azione All'occidente, ora nonostante le differenze con la cucina occidentale, la cucina cinese rappresenta una sfida interessante per gli editor della Michelin. Si fa una certa difficoltà a pensare di poter imparare ad apprezzare (e valutare) una nuova tradizione culinaria dimenticando quelle che sono le nostre avversioni da occidentali (relative a ricercatezze gastronomiche come possono essere per esempio l
e uova centenarie).Ci si chiede, quindi, se i giudici della Michelin saranno in grado di valutare correttamente i ristoranti di Hong Kong.
Il
disgusto è una disposizione universale. C'è una specifica espressione facciale e delle caratteristiche reazioni psicologiche che lo identificano (se per esempio un oggetto ritenuto disgustoso entra in contatto con uno che non lo è, quest'ultimo viene ritenuto contaminato, e quindi disgustoso). Il disgusto è un utile strumento psicologico per degli onnivori quali sono gli esseri umani, ci permette infatti di imparare dagli altri quale cibo è commestibile e quale no. Secondo gli studi condotti da Paul Rozin è dai 0 agli 8 anni che si sviluppa il nostro senso del disgusto, dopo questo periodo ciò che è stato classificato come disgustoso resta tale per tutta la vita. Il disgusto è un ottimo esempio di incapsulazione: si può tentare di bypassare le nostre avversioni, ma non si sa bene per quale ragione, nulla ci convincerà pienamente che il cibo che si sta mangiando è commestibile se abbiamo anche lontanamente il dubbio che non lo sia. Il disgusto è quindi sia universale che culturale. Come il linguaggio, è un meccanismo universale che ha bisogno di input culturali. Il modo in cui funziona il disgusto può farci pensare che giudici che sono cresciuti nell'ambito della cultura occidentale non possano essere in grado di giudicare e apprezzare pienamente la cucina cinese. Certo, c'è una cucina cinese per gli occidentali, ma se la Michelin scegliesse dei giudici cinesi la guida sarebbe di qualche utilità per un pubblico occidentale? O c'è bisogno di una guida di Hong Kong per occidentali, un'altra per i cinesi e probabilmente molte altre guide per ogni tradizione culinaria? Oggi il
relativismo non è più un fattore empirico quanto una precauzione metodologica. Come Micheal F. Brow suggerisce in un recente articolo di
Current Anthropology, gli antropologi hanno cessato di aderire alla tesi secondo la quale le persone vivono in mondi differenti e considerano il relativismo solo una modalità di sospensione del giudizio per meglio osservare una credenza o una pratica all'interno del loro contesto di appartenenza. Comunque sia, la cucina può essere uno dei pochi contesti nel quale il relativismo empirico è completamente valido. Sembra che per la cucina si viva in mondi differenti e non comparabili tra loro....