I Dubbi e le incertezze del mestiere: Antropop di Duccio Canestrini

La copertina del libro di Duccio Canestrini

E’ molto che non scrivo. Le motivazioni sono tante, ma forse la più importante è che ho messo un po’ in discussione tutto; il come faccio antropologia e il come si fa antropologia dell’alimentazione, almeno qui in Italia. Sono sempre stata abbastanza critica sul modo in cui si approcciano i temi della cultura alimentare, chi mi segue lo sa. Eppure più vado avanti più mi rendo conto che, pur non piacendomi quello che vedo, non ci si può soltanto lamentare, bisogna agire.

Lavorando mi si chiede di dare sostanza e rilevanza scientifica a un evento enogastronomico. Questo vuol dire (almeno per me) uscire fuori dalla solita retorica della tradizione e dargli un’anima che veda parlare tra di loro antropologia, storia, cultura alimentare e modernità. Non è facile, specie oggi, dove inciampare nella banalità (e a volte nell’assurdo) sembra all’ordine del giorno. Il mondo dell’antropologia sogghigna e mangia a spese di questo teatrino enogastronomico, leggendo il nuovo libro di Duccio CanestriniAntropop“, ci si rende anche conto del perché.

Duccio spero non me ne vorrà se cito lunghi pezzi della sua ultima fatica, presi dal paragrafo “Food porn: antropologia del magnamagna“:

Il nostro rapporto con il cibo è diventato complicato, è divenuto un fenomeno di costume, con qualche risvolto psicoanalitico. Nel magnamagna generalizzato è possibile cogliere un ritorno all’oralità infantile. E forse anche una nostalgia dell’economia primitiva di caccia e raccolta: vado mi sazio e torno. Di certo c’è una rivalutazione incondizionata della gola, che se non sbaglio un tempo era considerata un vizio e dunque un peccato. Dalle società che si dichiarano cristiane sono ormai scomparsi quaresime, venerdì di magro, e ogni altra temperanza alimentare di matrice religiosa.

[…] Antropologicamente parlando, l’attuale cultura alimentare prevede due opzioni: o cibo fighetto, o i sapori di una volta. Da una parte prelibatezze rinomate che sfiorano il concetto un po’ inquietante di cibo firmato. Dove la firma non è necessariamente garanzia di qualità, ma un trofeo di consumo. Dall’altra la retorica delle tradizioni, con i soliti sapori che hanno attraversato i secoli, e altre oscene trovate come i giacimenti golosi. Non occorre dilungarsi troppo sul cibo fighetto. E’ evidente che ci troviamo in presenza di un’estetica del cibo: non molto interessante, ma immagino rassicurante per chi nella vita ha bisogno di (ostentare) sicurezze.

[…] Veniamo al cibo finto povero, a quei benedetti sapori che avrebbero attraversato i secoli. Non c’è discorso sulla cultura popolare che non finisca lì, in degustazione. Non c’è pietanza, anche la più umile e sciatta, che non sia stata riscoperta, raccontata e “simpaticamente” riproposta. Di colpo si è scoperto che i sapori hanno eroicamente sconfitto il tempo, attraversando indenni i secoli. E così all’improvviso sono saliti alla ribalta miserabili leccornie, povere sbobbe, orribili guazzetti. […] Attraversato cosa? I secoli? Ma cosa stai dicendo? Avranno attraversato gli intestini di quelli che adesso sono sotto terra, nei cimiteri. Perché secondo te le focacce, le verdure, il vino, oggi hanno lo stesso sapore in bocca che avevano prima della rivoluzione industriale? Non la pensava così il mitico Piero Camporesi, storico dell’alimentazione medievale: nessuno può dire che il pane, gli ortaggi e il latte attualmente abbiamo lo stesso gusto che avevano nel Cinquecento, ai tempi del Concilio di Trento. Altre materie prime, altra chimica dei terreni, altre lavorazioni. Altra fame.

[…] Mi chiedo come facciano a resistere gli antropologi. Come fanno a spacciare ancora la formula strabollita saperi/sapori, un luogo comune ormai bruciato da schiere di astuti ristoratori. Come fanno, come facciamo, a starci dentro. A partecipare a convegni parascientifici sulle minoranze etniche in pentola, sui bricchi, colini e presunte contaminazioni. Siamo sicuri di non prenderci tutti quanti in giro con lo sfoggio di dotte citazioni attorno alla greppia? Oltretutto, i minestroni world food, lungi dal produrre apertura, accoglienza o reciproca comprensione, solitamente iniziano e finiscono nel cavo orale. Temo che nel promuovere banchetti interculturali, la retorica delle mescolanze risulti più utile chi vive di turismo che a un ecumenico incontro con l’Altro. […] In questo percorso di valorizzazione delle varie identità-salamella, mentre ci si ingolfa in trattoria, l’antropologo si trova essere competente (perché sa), compiacente (perché fa) e commensale (perché mangia). Davvero un ospite speciale. Ma quando la pretestuosità di certe manifestazioni oltrepassa la misura, sarebbe meglio esercitare l’obiezione di coscienza. Valorizzare le risorse del territorio, come no. Ma magari suggerire qualche dignitosa modalità alternativa. Come minimo, nutrire qualche perplessità.

Sono riflessioni non facili per me, e assolutamente veritiere per certi tratti. Valide non soltanto nel campo dell’antropologia dell’alimentazione. Non a caso tutto il libro di Canestrini è un’ironica critica a quell’antropologia che si prende troppo sul serio, che non riesce più a parlare con la cultura popolare, o che ne perde il piacere, chiudendosi nei recinti accademici. Che non riesce ad essere Antropop, insomma.

Scorrendo le pagine dell libro ho provato varie emozioni, dalla sana approvazione, alla sconforto, alla perplessità fino a una certa irritazione. I libri di Duccio Canestrini sono sempre stati attraversati da un’ironia intelligente, il gusto di giocare con le parole, per portare il lettore a riflettere senza nozionismi pesanti. Con la capacità, che pochi hanno, di mettere in equilibrio curiosità e posatezza. Eppure in questo libro l’ironia a tratti stride, quasi fosse tirata per i capelli. Quasi che il gusto della battuta prevalga sul contenuto.

I contenuti rimangono comunque di spessore, accompagnano il lettore a riflettere su questa modernità così veloce da non lasciarci né il tempo né la voglia di farlo. Da Rihanna alle veneri ottentotte, a Lombroso che si incontra/scontra con l’ultima fatica di Quentin Tarantino “Django” fino all’ossessione per l’enogastronomia per atterrare su quelle sessuali. Analizzando, osservando e commentando, proprio come fa un bravo antropologo.

[youtube]https://www.youtube.com/watch?v=ilOFnX2JZ_E[/youtube]

Un antropologo che si interroga sull’utilità dell’antropologia oggi. In un mondo talmente globalizzato dove la vecchia etnografia si è stemperata, non riconoscendosi più in ciò che studiava. Ecco, Canestrini ci dice di non buttarla, ma nel caso di rivederla, alla luce dei tantissimi cambiamenti cui l’umanità è andata incontro in un lasso di tempo così breve, come è il periodo storico che stiamo vivendo. L’antropologia, in questo caso, ci aiuta a capire alcuni cambiamenti che sono in atto. Un’antropologia della vita quotidiana quindi, capace di analizzare le forme di espressione della cultura popolare: fumetti, cinema, social network, oggettistica, usi e costumi.
In Antropop troviamo tutto questo. Eppure, a differenza dei suo precedenti lavori, in queste pagine ho provato un vago senso di disagio misto a disaccordo. Quando scrive per esempio:

Un’antropologia culturale che si limiti a capire, un’antropologia che assecondi gli orrori, e in fondo se ne nutra per sopravvivere, mi pare vigliacca. Arrivare a comprendere, da intelligentoni, quanto per gli indigeni sia importante praticare un’atrocità può essere interessante, ma sul piano umano non è il massimo. Abbiamo bisogno di piantarla con le violenze. A costo di fondare nuove tradizioni, più giuste. Anche gli antropologi dovrebbero abbandonare una loro tradizione, quella cioè di studiare le tradizioni, le radici, le cose che stanno nel passato. L’antropologia deve sviluppare modi di studiare, e possibilmente di migliorare, il futuro delle persone e delle culture.

Pur vedendoci sicuramente del buono, qualcosa stride in me. Forse perché in me scalcia un forte relativismo culturale, non capisco bene, quindi, se quanto afferma Duccio Canestrini sia Antropologia o il percorso, valoriale, di un uomo.

Non è facile essere antropologi, perfezionandoti in questa disciplina ti vengono dati degli strumenti, che possono diventare un’arma (ah, la storia dell’antropologia!). Proprio per questo sono sempre più convinta che l’antropologo debba lavorare insieme ad altri professionisti quando è coinvolto nel fare dell’antropologia qualcosa di utile. Per stemperare le sue idiosincrasie, nel confronto con l’Altro ( e qui l’Altro non è solo l’indigeno più o meno paraculo).

E’ il mio cruccio, anche, e soprattutto, quando pianifico un evento enogastronomico.

Voi cosa ne pensate? E tu Duccio?

2 Replies to "I Dubbi e le incertezze del mestiere: Antropop di Duccio Canestrini"

  • comment-avatar
    Duccio 11 Agosto 2014 (14:51)

    Cara Lucia,
    grazie delle tue considerazioni dedicate ad Antropop; interpellato, rispondo. Mi chiedi cosa ne penso, beh, penso quello che ho già scritto in Antropop! Non so dunque se temere o sperare che le mie riflessioni sull’antropologia del magnamagna ti abbiano messa in crisi, quasi quasi positivamente spero, del resto sarebbe nella logica di una Evoluzione Culturale. Riguardo al tuo dubbio se alcune mie posizioni (espresse non soltanto in Food porn ma anche nel paragrafo sulle tradizioni di emme o sull’uso avventuroso delle nuove tecnologie) siano “antropologia” o valori miei, considero la coincidenza delle cose proprio una mia evoluzione. Perché il mio percorso è al contempo di uomo e di antropologo, ebbene sì, con un’etica. Rilevo dubbi, incertezze, disagi, fatiche e stridori nel tuo commento. Guarda che io sono una persona allegra, eh 😉

    • comment-avatar
      Lucia Galasso 28 Agosto 2014 (11:14)

      Ciao Duccio, lo so che sei una persona allegra, altrimenti non avrei interpellato un musone! L’antropologia dell’alimentazione (come buona parte dell’Antropologia nostrana, come tu rilevi) è sicuramente in crisi, e io ero già in crisi da un po’ in merito. Leggere le tue pagine mi ha fatto sorridere amaramente, tra Camporesi e Vito Teti c’era già tanta carne al fuoco (scusa il riferimento culinario!). Ma sono anche consapevole che c’è un modo di fare antropologia dell’alimentazione sicuramente migliore, quando uniamo biologia e cultura per esempio, o quando i problemi incominciano a vertere sul cibo e l’alimentazione in seno a una società sempre più multietnica, e non parlo di portare il couscous nelle mense scolastiche, ma di servizi alla persona in campo socio-sanitario (problematiche nutrizionali della popolazione immigrata, counseling alimentare, studio sulle diete etniche, aggiornamento dei professionisti della salute: medici, dietisti, infermieri ecc.ecc.). Ecco qui si apre quel campo, tanto banalizzato dal cibo fighetto, dove risulta importante il legame tra diete etniche e salute.
      Circa il tuo percorso di uomo e antropologo, sicuramente fotografa bene la tua evoluzione, mi chiedo però se non rischi di trasformarsi in una sorta di “etnocentrismo” (un’altra parolaccia!). Giudicare cosa debbano o non debbano fare le altre culture, tradizioni di merda o meno, mi sembra una forzatura, un voler quasi imporre un percorso evolutivo (che è squisitamente personale) ad Altri. Non credo che sia questa la strada giusta, anche se colgo il buon senso delle tue affermazioni. No, il tuo libro non è facile, non lo dico come critica, ne rilevo gli stimoli a riflettere, a volte annuisco… a volte no. Tutto qui 🙂

Leave a reply

Your email address will not be published.

cinque × due =

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.