Pane, fermentazioni e relazioni postumane: l’impresa artigianale tra antropologia, cura e sostenibilità

Questo post nasce da un commento colto e sintetico di Davide Genta su LinkedIn, in cui si interrogava su un paper “strano”, che mette insieme il pane, l’industria e il Regno Unito. Il lavoro in questione è Fermenting alternatives through the more-than-human relations of craft entrepreneurship, di Emma Bell.

Un testo che, per chi si occupa come me di culture alimentari, apre uno spazio di dialogo fertile con l’antropologia economica, le teorie post umane, le pratiche artigianali e i modelli imprenditoriali alternativi. Bell parte da una domanda chiave: le relazioni tra umani e non umani nell’artigianato possono sostenere modelli imprenditoriali più etici, responsabili e sostenibili?

Per rispondere, la Bell osserva da vicino trenta panificatori artigianali nel Regno Unito, accompagnandoli nei loro laboratori, analizzando i loro gesti e i loro ambienti di lavoro, fotografando le mani, la pasta, le fermentazioni. E ci racconta come il lavoro del panettiere artigianale possa diventare un laboratorio di convivenza multispecie, dove la materia stessa partecipa attivamente alla creazione.

Un’impresa oltre l’umano

Per rispondere, Bell si affida a tre filoni teorici che meritano di essere spiegati con chiarezza (visto che io per prima non li conoscevo):

🔹 Materialismo femminista: è un approccio che invita a considerare la materia – come un impasto, un utensile, un ambiente – non come qualcosa di passivo, ma come parte attiva nei processi. Questo pensiero valorizza i gesti quotidiani e materiali, spesso associati al lavoro femminile e domestico, riconoscendone valore e intelligenza. Applicato al cibo, significa prestare attenzione a ciò che il cibo “fa” e a come interagisce con chi lo lavora.

🔹 Postumanesimo: mette in discussione l’idea che solo l’essere umano sia al centro dell’azione e del pensiero. In un’ottica post umana, anche microrganismi, gli animali, gli strumenti e gli ambienti hanno un ruolo. Nel contesto alimentare, significa considerare i lieviti, i batteri, l’umidità dell’aria non come semplici “condizioni”, ma come soggetti che influenzano il risultato e co-partecipano al processo.

🔹 Practice theory (teoria della pratica): focalizza l’attenzione sulle azioni quotidiane, sui saperi taciti, sui gesti che spesso sfuggono all’analisi teorica. Secondo questa visione, è nelle pratiche concrete che si produce conoscenza. In cucina o in panificazione, significa osservare come le persone imparano attraverso il fare, con il corpo, con l’esperienza e in dialogo con l’ambiente.

Questi approcci permettono di leggere l’attività artigianale non come mera produzione, ma come processo relazionale, sensibile e situato.

Tre categorie analitiche: vicinanza, connessione, agitazione

Dall’analisi dell’articolo della Bell emergono tre dimensioni fondamentali:

  1. Proximity – Vicinanza
    I panificatori intervistati sviluppano un rapporto sensoriale e attento con la materia prima. Lavorano l’impasto con cura, ne riconoscono la resistenza e la variabilità. È un’interazione tattile e corporea che evidenzia la co-agency tra persona e materia.
  2. Connections – Connessioni
    Il processo di fermentazione è una collaborazione con microrganismi viventi. I panificatori non esercitano un controllo assoluto, ma si adattano, ascoltano, osservano. Questo tipo di relazione mette in discussione il modello imprenditoriale dominante, fondato su standardizzazione e prevedibilità.
  3. Collective Agitation – Agitazione collettiva
    La fermentazione diventa una metafora per il cambiamento sociale. I panificatori intervistati esprimono una critica al sistema agroindustriale e propongono alternative fondate su reti locali, sostenibilità e pratiche ecologiche.

Differenze rispetto al contesto italiano

Mi sono quindi domandata quali potevano essere le differenze se la Bell avesse condotto la sua ricerca in Italia. Nel confronto tra Regno Unito e Italia, mi sono balzate subito in mente tre differenze rilevanti (ma se tu, buon lettore o panificatore, ne hai altre, sono più che contenta e incuriosita di aggiungerne a questa riflessione):

  • Nel Regno Unito, il recupero delle fermentazioni naturali e dei grani non industriali è spesso recente e legato a movimenti culturali urbani. In Italia, molte pratiche si sono evolute nel tempo, mantenendo una continuità anche al di fuori delle narrazioni identitarie.
  • In Italia, il pane mantiene una forte valenza simbolica e culturale, ma non necessariamente legata alla nostalgia: è parte di un sistema alimentare che resiste a una completa industrializzazione.
  • I panificatori italiani spesso apprendono il mestiere attraverso una trasmissione esperienziale, mentre nel contesto britannico analizzato dalla studiosa prevalgono percorsi individuali e ibridi, talvolta accademici.

Queste differenze ci aiutano a capire come l’idea di “impresa artigianale” – o craft entrepreneuring, come la chiama Bell – non sia un modello unico e universale, ma qualcosa che cambia molto a seconda del contesto culturale, sociale ed economico. Confrontare i panificatori del Regno Unito con quelli italiani, ad esempio, permette di vedere come l’artigianalità si costruisce in modi diversi: a volte nasce da un recupero consapevole, altre da una continuità di pratiche mai interrotte. Leggere queste esperienze in parallelo significa osservare le specificità locali, ma anche cercare fili comuni, utili per ripensare l’impresa alimentare in modo più aperto e inclusivo.

Impresa come pratica relazionale

Il cuore della proposta di Emma Bell è ripensare l’imprenditorialità come pratica relazionale, materiale e multispecie. Un’impresa artigianale “more-than-human” implica:

  • il riconoscimento della capacità della materia di agire e influenzare i processi;
  • la valorizzazione dei tempi lunghi e delle competenze incorporate;
  • una cura che si estende oltre l’umano, includendo ambiente, strumenti e microbi.

Questo approccio dialoga con modelli organizzativi come quello di Nonaka e Takeuchi in The Knowledge-Creating Company, dove la conoscenza nasce nella pratica quotidiana, attraverso intuizioni, esperienza e collaborazione ( se ti interessa puoi scaricare qui una breve sintesi del saggio, per approfondire come le imprese possano valorizzare il sapere situato come leva di innovazione).

Verso un nuovo modello

Il lavoro di Bell offre spunti utili per leggere le trasformazioni in atto anche nel contesto italiano. L’impresa artigianale, anziché essere ridotta a una dimensione nostalgica o folclorica (in merito ti rimando al mio post sulla retorica della tradizione), può diventare uno spazio di sperimentazione concreta per economie più attente, ecologiche e collaborative.

Una pratica alimentare non è solo tecnica o cultura, ma una forma di interazione situata, in cui materia, saperi e ambienti agiscono insieme nella costruzione di valore.

Se queste riflessioni ti hanno fatto nascere domande, connessioni o disaccordi, ti invito a condividerli. Il confronto è parte essenziale di ogni processo di ricerca e divulgazione: scrivimi nei commenti o attraverso i miei canali. Sarà un piacere continuare la conversazione insieme!

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