Mangiare dopo la pandemia

C’è una rivoluzione culturale in corso e se ne sente parlare in maniera sempre più crescente: l’epidemia di Covid-19 ha cambiato il nostro modo di mangiare. Il cambiamento più grande lo abbiamo osservato durante il lockdown, ma si tratta di un processo ancora in atto e diverse sono state le indagini statistiche condotte per fotografare il prima, il durante e il post epidemia.

Di certo la pandemia ha riportato prepotentemente la tematica della salute all’interno delle nostre vite. L’origine alimentare del virus, anche se non confermata, ha lavorato sull’immaginario comune e sulla percezione della sicurezza alimentare. Il Covid-19 è stato un acceleratore di trend di benessere come il ritorno della cucina casalinga e la maggiore attenzione alla qualità di ciò che si porta in tavola, ma ha anche promosso una sorta di “autarchia alimentare” dove ogni Paese colpito sostiene i propri prodotti poiché le filiere corte rassicurano il consumatore.

La pandemia ha generato un’esaltazione sia da parte delle aziende che dei consumatori del rapporto cibo e salute in termini di sicurezza alimentare. Un concetto quest’ultimo che in italiano non rende giustizia alla duplice valenza di Food safety e Food security che ha invece in ambito anglosassone.
La Food safety riguarda la salubrità igienico-sanitaria del nostro cibo (rischi chimici, fisici, e microbiologici), la Food security è invece un po’ più complessa perché riguarda l’accesso fisico, sociale ed economico al cibo di tutte le persone e in ogni momento: un cibo sufficiente, nutriente e sicuro, in grado di soddisfare fabbisogni nutrizionali e preferenze alimentari e di condurre una vita attiva e sana. L’impatto della Food security riguarda inoltre tematiche come la sostenibilità, l’ecologia e la biodiversità.

Ambedue questi aspetti del cibo “sicuro” hanno le loro basi nelle paure ataviche che l’uomo ha intessuto con il cibo lungo tutta la sua storia.
La paura più antica e ancestrale è quella della fame, della carestia, forte e ossessiva. Oggi questa paura è stata sostituita con quella della qualità sanitaria, ma basta una crisi come quella aperta dall’attuale pandemia per vedere tornare prepotentemente in campo la paura più ancestrale, la stessa che ci ha spinto a fare lunghe file d’attesa per la spesa durante il lockdown. È la cosiddetta “sindrome della dispensa vuota”.

La paura del cibo non sano è invece più tipica dei periodi di tranquillità e di benessere alimentare. Possiamo sostenere che la paura che investe la quantità – fame – e quella della qualità – salubrità – sono indirettamente proporzionali: se diminuisce una aumenta l’altra, anche se a prevalere è sempre e comunque la paura della privazione alimentare.
La terza paura che costella il vissuto alimentare delle persone è relativa alla filiera: più il circuito è corto, più il consumatore è tranquillo. La tracciabilità degli alimenti (origine, qualità, modo in cui sono prodotti, trattati e cucinati) è diventata sempre più opaca e questa poca trasparenza distrugge il legame simbolico che le persone hanno con il cibo.

L’autoconsumo rassicura e di questo abbiamo avuto prova durante la quarantena, un momento di grande smarrimento in cui le persone hanno sentito il bisogno di riprendere il controllo “riattivando” comportamenti alimentari di autoproduzione casalinga in grado di farli sentire indipendenti rispetto a un contesto sociale vissuto come pericoloso. Questo con diversi scopi: far fronte ad un’eventuale carenza alimentare, avere cura dei propri familiari e tenere sotto controllo l’ansia crescente.
Infine un’ulteriore causa d’ansia è lo statuto di un alimento, ovvero cosa ci si aspetta da un alimento. Oggi ci si aspetta che questo contenga tre caratteristiche imprescindibili: gusto, convivialità e salute. Ma nel corso della storia ognuna di esse ha rivestito un ruolo diverso a seconda delle esigenze e delle disponibilità.

Il cibo ha il valore che sappiamo dargli, un meccanismo di calcolo e riconoscimento che cambia nel tempo e che si traduce nel modo in cui ci relazioniamo ad esso. Un esempio? Se lo sprechiamo non solo non è più un valore, ma non lo è neppure l’atto con cui ne usufruiamo: il mangiare. Meno patiamo la fame, più perdiamo consapevolezza di ciò che significa mangiare. La quarantena ci ha fatto rivivere – più o meno indirettamente – la paura della penuria alimentare, tipica dei periodi di grande crisi.

La buona notizia è che noi italiani abbiamo risposto bene alle nuove sfide poste dal Covid-19, in special modo nel settore dell’alimentazione. Secondo il recente Rapporto Coop che fotografa le scelte dei consumatori e le tendenze negli acquisti, il tema della sostenibilità dell’intera filiera alimentare è molto sentito dai nostri connazionali, che la vivono secondo 4 stili: c’è chi cerca di adottare nel quotidiano comportamenti sostenibili (26%), chi vede nell’innovazione tecnologica il punto di partenza per una nuova sostenibilità (18%), chi ne sostiene i valori etici e morali per tutti e chi, infine, vi associa la promozione e valorizzazione del territorio (34%). Alla base c’è la convinzione generalizzata che il Covid-19 sia una conseguenza della scarsa tutela della biodiversità, dell’ambiente e degli animali.

I nuovi stili alimentari italiani prendono forma proprio sull’onda di queste considerazioni e in futuro andranno a creare la “nuova normalità” del nostro quotidiano. Una normalità fatta di attenzione alla provenienza degli alimenti – che come abbiamo detto più vicini sono geograficamente al consumatore, più li si considera sicuri anche in un’ottica di tutela delle produzioni nazionali–, di prodotti alimentari naturali/sostenibili – in un’ottica di rispetto ambientale, benessere animale e tutela dei lavoratori – e di cibi plant-based, ossia vegetali – per un acquisto sempre più mirato verso il cibo salutare e quindi meno manipolato.

In questo contesto di cibo healthy, rigorosamente naturale, ma con tutte le prerogative che solo l’industria alimentare può garantire in termini di sicurezza alimentare, il concetto di “naturale” sembra dissonante. Ma è proprio grazie alla pandemia che possiamo far coesistere natura e cultura armoniosamente, inaugurando un periodo di alleanza tra posizioni spesso opposte.

Un esempio pratico è lo smart working, una modalità di esecuzione del lavoro implementata in maniera quasi totalizzante dal Covid-19, che ha ridisegnato il nostro quotidiano, regalandoci un effimero tempo in più ma anche il problema del pasto, prima risolto dalle mense scolastiche o aziendali. Che cosa mangiare? Come essere sicuri che il pasto sia al contempo sicuro, gustoso e personalizzato?

Sembra un ossimoro ma la personalizzazione del pasto, la scelta degli ingredienti della dieta da seguire è la nuova frontiera delle scelte alimentari.
L’antropologo Claude Fischler spiega che oggi l’affermazione di sé passa sempre più spesso per la scelta di un’alimentazione per così dire privata, che non è necessariamente quella del gruppo socioculturale in cui si è cresciuti: diete di impegno etico, politico o spirituale (vegetarianismo, veganismo), diete salutiste (gruppo sanguigno, crudista, paleodieta), diete selettive e restrittive per ragioni mediche (allergie e intolleranze) e prescrizioni religiose. Si tratta infatti di scegliersi un nuovo regime alimentare allo stesso modo in cui si sceglie “una famiglia del cuore” e di affermare, per mezzo di una scelta vissuta come una liberazione, la propria appartenenza a un gruppo e allo stesso tempo la propria volontà di smettere di subire passivamente l’influenza della società dei consumi.
A ben osservare, la ristorazione collettiva è in grado di fornire pasti nutrizionalmente ed eticamente idonei ai suoi utenti: bambini, malati, anziani e adulti. Questo perché può contare sulle competenze di professionisti dell’alimentazione che creano menu completi e sicuri con modalità difficilmente replicabile in ambito domestico.
La ristorazione collettiva del futuro garantirà il migliore equilibrio tra libertà individuale e salute del consumatore. In questi ultimi mesi stiamo assistendo alla nascita di soluzioni innovative e digitali in grado di rispondere alle nuove esigenze dei lavoratori. Come lo Smart locker, un frigorifero intelligente controllato da un’App che permette di scegliere da remoto un pasto sano e personalizzato confezionato in atmosfera protetta e di consumarlo in ufficio o a casa quando è programmato lo smart-working. Un’alternativa allo Smart locker sono le Lunch box, pasti pronti prenotabili tramite App da ritirare in mensa o da recapitare a casa con servizio delivery.

Tutte queste soluzioni utilizzano tecnologie all’avanguardia come la MAP (acronimo di Modified Atmosphere Packaging, ovvero confezionamento in atmosfera modificata), una metodologia igienica che permette agli alimenti di allungare la loro vita in frigorifero senza perdere le proprietà visive, organolettiche e nutritive. All’interno dell’emergenza sanitaria che stiamo vivendo, la MAP permette di rispondere alle esigenze di sicurezza alimentare, di comodità di prodotti semilavorati, di attenzione alle materie prime, alla sostenibilità e alla salute.

Il problema dei cibi industriali riguarda non tanto i metodi di conservazione bensì l’origine delle materie prime e i controlli di qualità. Il benessere dei fruitori è una risultante di due fattori: da un lato le caratteristiche organolettiche e nutrizionali del cibo, dall’altro la sua parte immateriale, legata all’aspetto psicofisico, ovvero la soddisfazione, il gusto, lo stato di sazietà e di appagamento. A questi se ne aggiunge un terzo: la variazione degli alimenti che è contemplata anche nella stagionalità proprio per assicurare all’organismo l’assunzione di tutti i nutrienti di cui ha bisogno.

Sono processi che avvantaggiano tutti. Sia i produttori, che in questo modo differenziano l’offerta senza stravolgere i ritmi di produzione naturali, sia i fruitori che hanno una maggiore possibilità di scelta da tarare sui propri parametri personali: dalle possibilità economiche al tempo per cucinare e fare la spesa. Inoltre una conservazione più lunga è sinonimo di maggiore sicurezza e non di minore qualità. Il prodotto ottenuto dura più a lungo, non perde molte delle sue qualità nutritive, può essere trasportato con facilità e, una volta acquistato, permette agli acquirenti di programmare meglio i pasti evitando così inutili sprechi alimentari. Le eventuali perplessità possono riguardare la perdita della stagionalità e delle ritualità degli alimenti, a cui però si può rimediare con un’adeguata educazione alimentare che ne scoraggi l’uso “conservato” quando sono disponibili freschi.

Perché tutto questo avvenga, sfruttando a pieno le possibilità inattese che ci offre questa pandemia, bisogna puntare su un’educazione alimentare che ci trasformi in consumatori responsabili e impegnati nel quotidiano, ciascuno nella misura delle proprie risorse e competenze.
Un percorso di conoscenza che parta dalla scuola per diventare educazione permanente sul rapporto tra cibo e salute, sull’adozione di comportamenti alimentari sani, sul concetto di qualità intesa nella sua interezza e sostenibilità e, al contempo, ci consenta di lavorare sulla dimensione culturale e sociale del cibo.

Sono queste le competenze che consentiranno alle persone di influenzare le proprie abitudini alimentari nella consapevolezza di come il cibo che abbiamo nel piatto vada problematizzato per tornare a dargli il valore che merita, quello di un bene comune.

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