“La commemorazione tradizionalista riposa spesso sull’ignoranza del passato”
(Néstor Garcìa Canclini)
In vari post ho accennato, in maniera più o meno approfondita, allo scottante tema della tradizione. Ieri, leggendo su Facebook lo status di Luca Ferraro, viticoltore, mi sono resa conto di quanto invece sia importante fare il punto della situazione.
Luca scrive:
“Io adoro le tradizioni sia ben chiaro. Vorrei solo fare un piccolo inciso, la tradizione senza innovazione si chiama immobilismo”
Non potevo non dire la mia e mi sono buttata nella discussione. Per passione, ma anche perché penso che un antropologo ha il dovere di fare chiarezza, una sorta di servizio pubblico insomma, la sua mission per dirla dal punto di vista di quel marketing che tanto tira la sottana al concetto di tradizione.
Ma cos’è la tradizione prima di tutto?
È principalmente legata al tramandare una cultura da una generazione all’altra lasciando che parte del passato viva nel presente. Un confortante passaggio di consegne che preserva, nel tempo, l’identità collettiva.
Della tradizione si ha però una visione abbastanza stereotipata, come di un qualcosa che non muta nel tempo, ma rimane stabile, granitico, inossidabile. L’antropologia ne ha combattuto queste immagine che la vede al di fuori della storia, e quindi non soggetta a vicende, esperienze, incontri, cambiamenti, invenzioni, aggiustamenti come di fatto accade.
La storia dell’uomo é fatta di incontri, scambi, meticciati culturali, che nel tempo trasformano la tradizione attraverso l’innovazione. Nessuna cultura è chiusa in se stessa, impermeabile alla storia, o come dice Marshall Sahlins “Nessuna comunità è fuori dalla storia”. Le società e le culture non sono statiche: sono in continuo movimento. Tuttavia sono tese nel tentativo di apparire statiche. Esse tentano, attraverso le istituzioni di assorbire il flusso storico e di compensare la funzione di altre istituzioni tese in direzione del cambiamento. E’ così che sopravvive l’identità, che non è altro che una rimozione della storia, come ci ricorda Ugo Fabietti.
Il problema a cui oggi assistiamo è dovuto a quello che il grande storico francese Marc Bloch ha definito “l’idolo delle origini”, ovvero la tendenza a spiegare il più recente mediante il più remoto. In antropologia questa è chiamata retorica dell’autenticità e vale in ogni campo, cibo compreso.
Quale è il meccanismo dietro questo processo?
Si tende a pensare che nelle culture vi sia qualcosa di originario, di peculiare, di autentico da recuperare e valorizzare. Una reazione che nasce in risposta alla globalizzazione, all’uniformità dei costumi e dei consumi, che genera una nostalgia delle radici; l’ansia di ritrovare ciò che si pensa incarni lo spirito autentico o originario di una cultura.
Tutto ciò il più delle volte si traduce in un decontestualizzazione di pochi elementi culturali (il più delle volte anche iper-folklorizzati. Un esempio? Le sagre), spogliandoli di quel simbolismo che dava loro fondatezza e significato. E’ la vittoria del simbolo vuoto, luogo d’elezione di un marketing senza anima (non a caso le società industriali moderne sono grandi produttrici di ”autenticità”). Siamo in pieno Neotradizionalismo, dove il consumo dell’autentico è un processo di invenzione della tradizione, che serve a surrogare la memoria, elaborando un passato immaginario.
Nell’ambito della cultura dell’alimentazione è molto facile osservare questi processi in opera, e capirne anche le motivazioni.
Se ci fate caso quando si parla di cibo la tradizione è sempre e solo buona: un sogno nostalgico di un passato puro e incontaminato, che garantisce autenticità e qualità. Dimenticando completamente che è questa è stata principalmente cultura della fame, dove il regime dietetico era profondamente legato all’habitat naturale, una geografia alimentare, locale e regionale, che era fortemente caratterizzante.
Per come la vedo io la realtà delle cose è che oggi abbiamo ancora fame. Una fame diversa, fatta di tentativi di riappropriarci di qualcosa che è irrimediabilmente perduto e che tentiamo di recuperare attraverso la mediazione della tavola. Una fame culturale più che fisiologica, che se debitamente interrogata può dirci molto sui meccanismi della contemporaneità. Sono questi i sintomi di un uomo contemporaneo malato di complessità, che ha reciso dalla propria memoria i ritmi temporali che costituivano il calendario della tradizione, il senso di appartenenza a una comunità, a un luogo, a cui essere affettivamente legato. Un uomo orfano di legami che acquista in non-luoghi, ma che ricerca disperatamente dei luoghi affettivi, relazionali, in cui trovarlo.
Ecco, se devo pensare alla tradizione non mi vengono in mente tanto concetti come “territorio” e “prodotto tipico” (per citare i più frequenti) quanto piuttosto ”“relazione, “comunità” e “cooperazione”. E’ attraverso questi che si riscatta il passato che, nella famiglia, nella comunità e nella riproduzione ciclica dei ritmi gastronomici, trovano profonde ragioni logiche e affettive.
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