Dalla decadenza del brodo alla rivincita della polpetta

Tutto è iniziato con la lenta decadenza del brodo, re incontrastato del sistema alimentare antico, matrice insostituibile di ogni ricetta dei manuali di cucina dell’ottocento (ma anche di molto prima). Eppure già a fine secolo questo saporoso liquido, pur rimanendo nella pratica culinaria, perde la sua centralità, lasciando il passo a nuove filosofie e grammatiche alimentari, che lo relegano a semplice fondo di cucina.

Un archetipo legato alla casa, il brodo, al ricordo di un paiolo che bolliva lentamente, quasi di continuo, nella cucina di campagna come in quella borghese, profumandone le stanze, al pari delle mani di coloro che lo preparavano. Una ricetta che nella povertà consisteva, il più delle volte, in semplice acqua salata con l’aggiunta di lardo e strutto (e da qui la nascita di zuppe e minestre), mentre in quella ricca punto di partenza per ricette ricche ed elaborate.

L’immagine di questo liquido confortante e salubre viene quindi abbandonata, dopo secoli di onorata militanza culinaria, all’interno di una cucina che concepiva e declinava il discorso alimentare saldamente collegato a quello salutare. Così, quel brodo rinfrescativo, depurativo o ancora quel brodo semplice per gli ammalati, di cui scrive Vialardi nel suo la Cucina borghese, lascia il passo a una scienza medica che ne mette in discussione la salubrità (parliamo principalmente di brodo di carne). Tutto questo con grande disappunto anche dell’Artusi, che del brodo aveva sicuramente una grande concezione, al punta tale da scrivere scetticamente:

“Si è sempre creduto che il brodo fosse un ottimo e omogeneo nutrimento atto a dar vigore alle forze, ma ora i medici spacciano che il brodo non nutrisce e serve più che altro a promuovere nello stomaco i succhi gastrici. Io, non essendo giudice competente in tal materia, lascerò ad essi la responsabilità di questa nuova teoria, che ha tutta l’apparenza di ripugnare al buon senso”.

La scomparsa Polpetteprogressiva del brodo non si fermò alla sua diminuzione dalle tavole, ma comportò anche la riduzione di tutti i piatti che nascevano dal riciclo delle carni usate per la sua preparazione, come i bolliti, e non consumate nella stessa giornata. Le polpette, i polpettoni, le gelatine, i friggioni, le crocchette, gli involtini di verza, le zucchine e le patate ripiene diventano ricette sempre più rare al pari di quelle che, come i brasati e gli spezzatini, richiedono dei tempi di cultura medio-lunghi e la cottura in sughi o in abbondanti condimenti liquidi. Ecco come il mutato rapporto col tempo ha modificato anche il rapporto con le categorie alimentari.

La polpetta ha quindi rischiato l’estinzione. Proprio quella polpetta che Vincenzo Tanara, nel Seicento, aveva eletto Regina delle vivande e cardine del sistema alimentare italiano. Il medico Giovanni Rajberti, nel suo Arte del convitare, corregge però Tanara:

“Le polpette sono una vivanda affatto italiana, anzi, direi, esclusivamente lombarda. La vera metropoli delle polpette è Milano, dove se ne fa un gran consumo, dove mi ricordo aver sentito molti anni addietro un vecchio conte esclamare: “Se si potesse raccogliere tutte le polpette che io mangiato in vita via, vi sarebbe da selciare la città dalla Piazza del Duomo fino al dazio di Porta orientale”.

La fortuna della polpetta non conosce frontiere regionali, la troviamo a Napoli nella versione al caciocavallo, ma anche in Sicilia dove si declina in varie ricette e dove ricordo con particolare nostalgia le buonissime polpette, a base di carne di cavallo, mangiate a Catania. Un piatto quindi interclassista e interregionale, buono per ogni tavola, senza distinzione di rango, tempo e luogo.

Alle lodi di Tanara e Rajberti si aggiungono quelle di un altro medico Oscar Giacchi (apro una piccola parentesi per far notare ai miei lettori che nel XIX secolo, il competente di cucina, il gastrologo, era spesso un dottore) che nel suo Il medico in cucina (1881), così ci parla delle polpette:

“Le polpette fabbricate senza miseria di ingredienti sono davvero un bocconcino che si mangia volentieri; ma viceversa poi, facendone un uso giornaliero, vengono a noia presto, come ne fanno fede quelle povere famiglie che hanno la disgrazia di avere in casa da più giorni un ammalato. Questa vivanda di compenso e così comune in questi casi dolorosi che propongo l’aggiunta di un nuovo proverbio popolare: “malato al letto, polpette in tavola”. Che questo piatto riesca eccellente riparatore dei tessuti ce lo garantiscono l’albume delle uova, la caseina del formaggio, le materie grasse gli altri elementi secondari del tuorlo e della carne. E lo raccomando caldamente in particolare ai vecchi senza denti, ai ragazzi e in generale a quanti non possono procurarsi un antipasto di genesi pura e verginale”.

Ecco quindi assistere a un passaggio interessante; le polpette prendono il posto del brodo in virtù del fatto di essere altrettanto salutari. Tanto da essere raccomandate a categorie particolari di persone: ragazzi, anziani sdentati e ammalati. Un vero e proprio comfort food.

Oggi la polpetta, nipote del brodo, vive una vera e propria stagione fortunata, in virtù del fatto di unire appagamento, semplicità, ricordi e sapori familiari (ogni famiglia ha la sua ricetta) a una forma rassicurante, quasi giocosa: un boccone che soddisfa anima e corpo.

Pur considerando le differenze culturali (il comfort food cambia da paese a paese) le polpette sono abbastanza trasversali, le troviamo, infatti, in buona parte delle tradizioni culinarie mondiali (la pagina di Wikipedia dedicata alla polpetta è molto ricca in merito). Questo sta a indicare, secondo me, un fatto interessante; come il brodo ha il suo substrato atavico così anche le polpette hanno un loro legame con la parte più primitiva di noi, che si richiama a uno dei gesti più antichi, mangiare con le mani, portarsi il boccone alla bocca. Una gestualità confortante, della quale non siamo consapevoli, ma che detta ancora le sue leggi.

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