E’ un sapiente intreccio di storie di vita, memorie e folklore questo libro di Chiara Cesetti. Anzi no, è un doppio intreccio in cui ogni tema del primo ordito si unisce a un secondo fatto di cucina, ingredienti e ricette. L’impegno di preservare dall’oblio la cultura alimentare di un territorio, quello della Maremma laziale, si sente forte e traspare in tutto il suo potere evocativo in perfetti cammei narrativi che segnano indelebilmente, nella memoria del lettore, le ricette.
Sono sempre un po’ restia a leggere libri di ricette “tradizionali”, le librerie ne sono invase, e il più delle volte mi imbatto (con mia somma costernazione) in un maltrattamento di quel concetto, così caro all’antropologia, di “tradizione“. Più che avere un significato in sé per sé questo sembra ormai essere diventato un suffisso per vendere bene due tipi di libri: sofisticate rielaborazioni di “cucina povera” o nostalgiche pagine di ricette perdute (compreso il senso, a favore di un idealizzato “stavamo meglio quando stavamo peggio”). In entrambi i casi ad andare persa è la storia della cucina popolare a favore di una sua fotografia statica, immobile, irreale… un dagherrotipo ingiallito, con tutto il fascino del caso, una foto di fantasmi insomma che è appunto cucina fantastica, e non storica.
La cucina contadina era semplice, rozza, primitiva, povera, debilitante e deprimente (per mesi e mesi praticamente rimaneva invariata), volta più a soddisfare i crampi della fame, che il gusto. Quando il gusto c’era, questo era da attribuire al sapiente ingegno della donna di casa, che sapeva fare di necessità virtù:
La tradizionale cucina contadina apparteneva infatti ai compiti e alla competenza di quel soggetto riproduttivo che il mondo rurale riconosceva essenzialmente nella donna
e ancora
Alla donna di casa veniva, dunque, assegnato l’incombente, gravoso e a volte disperato compito di provvedere, di mettere insieme le calorie sufficienti per la sopravvivenza della famiglia e di coniugare il lessico della riproduzione biologica con quello altrettanto importante della produzione rituale di cui il cibo è portatore. Inoltre, la scarsa disponibilità degli alimenti quasi sempre rendeva difficile la cura della famiglia secondo diete alimentari appropriate. In questo quadro la conoscenza delle erbe costituiva uno dei più importanti saperi che la donna doveva dominare per mantenere in salute la famiglia. (P. Grimaldi)
E’ anche grazie al ruolo della donna e al suo ingegno che si è costruita l’ossatura italica delle cosiddette “cucine regionali” (e anche qui andrebbe aperto un capitolo altrettanto critico sulla rigatteria culinaria che ci propinano sotto il nome di “cucina regionale”, mi riprometto di farlo in un post futuro). Mi sembra importante chiarire che quando si parla di tradizione o di “prodotto tipico”, “caratteristico”, “paesano” o “casalingo” tutto ciò serve a far leva sul sentimento di nostalgia di un consumatore medio che si sente orfano di passato, ignaro delle manipolazioni arbitrarie perpetrate a danno del suo profondo desiderio di una “mitica” cucina “genuina”, confezionata dalla mani di improbabili mamme o nonne. Questo non vuol dire che il passato è morto, ma che bisogna tenere in considerazione il fatto che nel tempo esso si è modificato, alterato, regalandoci nuove esperienze da chiamare “tradizione”.
Ecco, in questo il libro di Chiara Cesetti è molto onesto. Vi è la narrazione di un passato culinario che è scandito dai ricordi e dalle ricette, che cambia, accettando nuovi ingredienti, come la carota o la melanzana. Un passato che trova nella narrazione la sua dimensione, che è orale, come la cultura contadina. In questo raccontare si può trovare la volontà di dare senso a quel rapporto terra-territorio-colture che è fortemente legato alla cucina, in quanto fatto culturale, rituale e infine tecnico.
Leggendo l’indice si può notare come l’intento non sia solo quello di preservare dall’oblio delle ricette, ma anche il modo in cui queste marcavano importanti momenti del ciclo della vita e del calendario liturgico. Ecco quindi le sezioni dedicate ai dolci dello sposalizio, al carnevale, alla Pasqua e ai santi, senza trascurare di riportare il profondo senso del sacro che dava significato a queste usanze alimentari, tanto da avere radici in un passato dove la Chiesa non aveva ancora la sua egemonia.
Il libro sembra essere quasi, nella sua essenzialità e nella scelta grafica, uno dei quadernetti scritti a mano che la signora Bruna, anziana casalinga di Tuscania, ha prestato all’autrice per copiare le ricette. Uno spaccato della Maremma laziale di una volta…che dialoga ancora con il presente.
Vi lascio, l’autrice non me ne voglia, con una la ricetta della famosa “Acquacotta“, un piatto maremmano talmente povero che già il nome ne racconta la storia.
Acquacotta con cicoria e patate
La regina delle zuppe povere e saporite era ed è l’acquacotta, piatto semplice per eccellenza, tanto che può essere preparato solo con pane raffermo, acqua, sale e una manciata di mentuccia. Le varianti sono tantissime: si va dalle erbe selvatiche (strigoli, crescione, cicoria, asparagi, gurgulestro, pisciatelli, crispignolo, cavolaccio…) alle verdure di stagione: zucchine, fagiolini, broccoli. In campagna veniva servita nel piatto burino, un recipiente in coccio a forma di scodella in cui si tagliava il pane per tutti e da cui, versata l’acquacotta, tutti mangiavano con le mani dopo che il vergaro con l’olio vi aveva tracciato sopra il segno della croce. Se gli ingredienti variano, la preparazione è sempre la stessa.
Ingredienti
Pane raffermo, cicoria di campo, quattro patate medie, tre spicchi d’aglio, peperoncino, olio, sale, acqua quanto basta
In una pentola mettere acqua quanto serve per la cottura delle verdure e a freddo aggiungere sale, peperoncino e l’aglio intero con tutta la buccia.
Far bollire, aggiungere la cicoria e più tardi le patate tagliate a pezzi non troppo piccoli.
Tagliare il pane raffermo e sistemarlo nei piatti.
Bagnare il pane con la poca acqua rimasta dopo la cottura delle verdure, scolare quella superflua e mettere sul pane un filo di olio a crudo.
Aggiungere le verdure allargandole e versare sopra ancora un filo di olio extravergine
Nella variante più consumistica di oggi, oltre alle verdure si può aggiungere un nuovo a testa, cotto alla coque nella rimanente acqua di cottura. In questo caso è meglio cucinare l’acquacotta in un tegame largo, così è più facile cuocere le uova e tirarle su senza romperle.
Buona lettura e buon appetito!
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