Perché l’archeologia del cibo?

Perché, ultimamente, l’archeologia del cibo sta avendo un grande ascendente sulle persone? Quale profondo bisogno ha risvegliato tanto da creare intorno a sé una molteplicità di iniziative sia gastronomiche che culturali e storiche?
Ultimamente ho avuto il piacere di partecipare a un’iniziativa dedicata proprio all’archeologia del cibo, ma prima di parlarne approfonditamente, mi sembra doveroso capire in maniera più approfondita come l’archeologica del gusto lavori, e perché ci affascina tanto.

Roccaraso – Antiche vie del gusto

L’archeologia del cibo infatti – grazie alle nuove tecnologie – sta utilizzando i resti di cibi e bevande, rinvenuti in antichi recipienti, per ricostruire strategie di sussistenza, consumo e banchetto nelle antiche cucine. Particolarmente famosi sono stati i tentativi di “risvegliare” antichi lieviti per produrre birra o pane, che hanno decisamente attirato l’attenzione del pubblico verso queste tematiche. Questa attenzione ha svelato un interesse crescente nelle persone di conoscere il passato attraverso la cucina, bisogno a cui stanno attingendo musei, educatori, tour operator e il mondo dell’enogastronomia in generale.

La preparazione di questi cibi non è solo un fatto gastronomico, lo studio che li precede dimostra lo stretto intreccio esistente tra le persone e le pratiche alimentari nel passato. A questo si aggiunge il fatto, non trascurabile, che tramite la cucina si ha la capacità di analizzare gli aspetti e le dinamiche della vita sociale, politica, economica e religiosa di una cultura.

Gli archeologi hanno recentemente iniziato a ristudiare la cucina e la preparazione del cibo come finestra su altre pratiche e significati socioculturali e lo hanno fatto con l’aiuto anche dell’antropologia. Questo nuovo interesse per la cucina e la preparazione del cibo è prezioso perché mette in evidenza la varietà di mediazioni sociali che si verificano quando le persone preparano il cibo. L’attenzione alla preparazione e alla cottura dei pasti si concentra su azioni specifiche che hanno il potenziale per rafforzare o trasformare le identità e attuare il cambiamento sociale. Gli studi sulla cucina e il cucinare migliorano così la nostra comprensione di come le relazioni umane vengono stabilite, mantenute e interrotte attraverso il cibo e le abitudini alimentari.

Allestimento di una cucina da campo

Secondo l’antropologo statunitense Appadurai una cucina nel suo contesto sociale è “un fatto sociale altamente condensato”. È un “fatto sociale” perché le varie relazioni sociali sono mediate da tutte le scelte e le azioni che la preparazione, il servizio e il consumo del cibo comportano. I fatti sociali della cucina sono “altamente condensati” perché questa è l’espressione di una società di più ampi processi sociali, economici, religiosi e politici in atto, riflessi simultaneamente nelle scelte del cuoco. La capacità della cucina di materializzare, mediare e trasformare dinamicamente le relazioni sociali fornisce agli antropologi un potente strumento per esaminare le esperienze umane.

Gli archeologi concordano sul fatto che la cucina è culturalmente definita e che la cucina e l’identità sono intrinsecamente legate perché le categorie di appartenenza sono collegate alle scelte sulla preparazione, il servizio e il consumo del cibo.

In merito particolare attenzione viene data la figura del cuoco, a cui spetta il compito non solo di preparare il cibo ma anche di insegnare alle generazioni più giovani come realizzare i piatti che fanno parte della comunità di appartenenza. Le scelte che il con il cuoco attua, nell’insegnare, possono già da sole raccontarci quali siano le tappe fondamentali socialmente codificate di quella cucina. Imparare a cucinare, con successo, i piatti di una cucina specifica significa apprendere azioni che hanno un significato sociale.

Questo spiega in buona parte perché l’archeologia alimentare è diventata anche un modo per portare l’archeologia al grande pubblico. Ricreare i cibi di molto tempo fa e consentire ai non specialisti di accedervi fornisce un nuovo modo per le persone di interessarsi e confrontarsi con il passato.

Se a questo associamo l’utilizzo dei social media per esporre un numero sempre crescente di persone al lavoro archeologico si ha il potenziale per diffondere la ricerca scientifica a un pubblico sempre più ampio.

Pasquale Sarnataro

Poco sopra ho accennato a eventi archeo-gastronomici di matrice estera, ma anche in Italia abbiamo esempi di ricerca in tal senso, meritevoli di grande interesse e attenzione. In particolare quello a cui ho avuto il piacere di essere invitata il 17 settembre: un’archeocena dedicata al banchetto dei Sanniti Pentri di epoca pre-romana. Ideatore, curatore e cuoco del menù presentato è Pasquale Sarnataro, in arte il Cuoco delle Menadi.

L’archeocena ha avuto luogo in Molise, patria dei Sanniti Pentri, in una cornice molto suggestiva, un antico casale in pietra immerso in un bosco, che ha ospitato – all’aperto – il triclinio dove gli ospiti hanno consumato non solo il cibo ma anche un’esperienza a 360 gradi dell’antico banchetto sannita.

Il banchetto antico non era confinato solo al consumo di cibi e bevande, era un tempo da vivere con tutti i sensi; e così mentre noi ospiti assaporavamo ogni piatto, sorseggiavamo ogni bicchiere, non sono mancati musica e intrattenimento, ognuno ancorato saldamente all’epoca dei Pentri.
Particolarmente coinvolgente è stata la ritualità alla quale siamo stati chiamati a partecipare attivamente, ovvero il momento dell’offertorio a Kerres ed a Hereklui (Demetra ed Ercole), al quale abbiamo offerto cereali e grasso animale su un braciere profumato da rami boschivi.

Il menu presentato da Pasquale è stato studiato in ogni minimo particolare, così come la scelta degli ingredienti, questo un suo rapido riassunto:

Abbiamo iniziato con una serie di portate secondarie a corollario della portata di carne, quindi abbiamo mangiato una portata di uova di selvaggina condite con salsa di pesce, una portata di olive in conserva e del formaggio di capra condito con erbaggi e frutta secca.
Si è continuato continuato con una zuppa di legumi (ceci e lenticchie) e cereali (orzo), con una polenta di farro con funghi, carne e formaggio e, per concludere una portata di pesce al formaggio.
Un arrosto di manzo rifinito con la sugna bovina è stata la portata principale. L’arrosto era accompagnato da una mistura di orzo tostato e sale, da un mix di erbe (rosmarino, salvia e timo) e da una salsa di datteri ed una di mele.
La cena si è conclusa con una portata di ricotta di pecora condita con miele e frutta e con della frutta condita col miele.
I vini degustati sono stati un mulsum su base aglianico preparato con miele e timo, e un mulsum su base falanghina preparato con miele e alloro. In purezza si e bevuto un vino greco e un Falerno.
Al Simposio abbiamo assaggiato il mulsum al pecorino e quello con l’acqua di mare e giocato al famoso Kottabos… non con grande successo, ma sicuramente con molta allegria.

la Focaccia di farro e fave

In conclusione non posso non citare il pane-focaccia presentato da Pasquale, che custodisce un grandissimo studio, ispirato anche da mio libro dedicato all’archeologia e all’antropologia del pane. Le focacce d’orzo e di Farro e fave che hanno corredato la cena, obiettivamente mi hanno commosso un po’, sarà che il tema mi è particolarmente caro.

Fare archeologia della cucina non è un semplice atto ludico o estetico, se fatta bene.
Alcuni accademici hanno capitalizzato la curiosità del pubblico per la cucina antica e hanno creato esperienze culinarie a pagamento, tra cui Minoan Tastes o i ritiri culinari etruschi e romani di “The Old School Kitchen“. Altri studiosi hanno utilizzato le abitudini alimentari del passato per l’attivismo per la giustizia sociale. Peggy Brunache ha creato una conferenza interattiva sul coinvolgimento britannico nella tratta atlantica degli schiavi concentrandosi sulle cucine delle persone schiavizzate dalla sua ricerca archeologica. Ospitando la presentazione in un ristorante giamaicano in Scozia, la Brunache ha offerto al suo pubblico piatti africani della diaspora mentre discuteva di come ogni cibo riflettesse l’identità e la resistenza africane e gli impatti più ampi della tratta degli schiavi. Il suo approccio coinvolge attivamente il pubblico per conoscere il passato ed incoraggiare il cambiamento sociale.

L’archeologia della cucina ha la capacità di collegare il passato e il presente in molti modi produttivi. Poiché mette in evidenza “l’attività in divenire”, continua ad espandere le nostre opinioni e conoscenze sulle vite sociali passate, sfidando i nostri pregiudizi e fornendo scorci di esperienze vissute da persone reali… E non mi sembra una cosa da poco!

Per un buon articolo di approfondimento, con ottima bibliografia, vi consiglio l’articolo di Mario Indelicato dal titolo Archeologia sperimentale e alimentazione: il panorama italiano.

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