Sicuramente vi siete trovati di fronte all’immagine, al nome o alla storia, di una ricetta che vi ha affascinato, e di conseguenza vi è venuta voglia di realizzarla. E qui sorge il problema: il passaggio dalla teoria alla pratica rischia subito di arenarsi alla lettura della ricetta. Leggendo ci rendiamo conto di non essere sempre in grado di portarla a compimento… Perché
Il problema nasce lì dove le capacità manuali si incontrano/scontrano con il linguaggio. Sul fatto che il cibo sia un linguaggio non ci sono dubbi “serve per comunicare con gli altri, per esprimere se stessi, per interpretare il mondo, per consolidare tradizioni culturali, per rappresentare gerarchie sociali – dice Gianfranco Marrone – rappresenta e significa l’uomo, contribuendo a costruirne l’identità, individuale e collettiva”. E, come il linguaggio condiziona il pensiero, esso riesce anche a condizionare il modo in cui si parla di cibo, arrivando a influenzare il gusto, le pratiche culinarie e alimentari, fino alla ristorazione stessa. Ma c’è un genere letterario molto particolare se ci rifacciamo a un linguaggio che parla del cibo: la ricetta, ovvero la trascrizione di saperi manuali trasmessi oralmente ( qui un suo interessantissimo approfondimento)
Così continua Marrone:
“Il testo della ricetta, nelle sue forti differenze di genere letterario, è un luogo di negoziazione implicita fra due diverse forme di conoscenza: quella di chi scrive, per principio ipercompetente, e quella di chi legge, scarsamente competente, escludendo al tempo stesso colui il quale è del tutto incompetente. In altri termini, la ricetta non è rivolta a chi non sa cucinare per nulla, ma a chi, pur non sapendo cucinare al medesimo livello di maestria dell’emittente, ha comunque una certa idea su come ci si muova ai fornelli. La negoziazione consiste nel gestire i relativi saperi dei due soggetti in gioco, variando il primo al variare del secondo e viceversa; regolando volta per volta la qualità e la quantità dei non detti, degli impliciti, delle allusioni che rinviano, stimolandolo, al sapere del destinatario presupposto dall’emittente. Molte ricette, o forse tutte se pure in modo diverso, a un certo punto del testo delegano al destinatario, ovvero a colui il quale in linea di principio dovrebbe esser lì per imparare ad allestire un determinato piatto, tutta una serie di operazioni che si ritengono più o meno evidenti: da cui espressioni stereotipe che rinviano a piccoli gesti come “aggiustate di sale”, “aggiungete aromi a volontà”, “usate un brodo poderoso”, ma anche a vere e proprie stringhe d’azione che presuppongo saperi complessi come “rosolate l’aglio”, “fate appassire la cipolla”, “lardellate”, “preparate una besciamella”. Così, la ricetta ritenuta perfetta, quella che dovrebbe spiegare assolutamente tutto quanto occorre per preparare un certo piatto, non esiste, né può di fatto esistere. La sua validità si misura piuttosto sul tipo di lettore a cui si rivolge, variabile nello spazio e nel tempo”.
Consapevoli di questo tocca chiederci di chi è la colpa quando non ci riesce una ricetta, delle nostre scarse abilità manuali o di istruzioni poco comunicative? Richard Sennett nel suo “L’uomo artigiano” ci propone una lettura molto interessante di questo fenomeno, e lo fa proponendoci la lettura della medesima ricetta, il “Poulet a la d’Albufera“, proposta da tre food blogger “vintage”: Julia Child, Elizabeth David e Madame Benshaw. Tutte e tre ci introdurranno a diverse possibilità espressive del linguaggio che parla del cibo, aiutandoci (chi più, chi meno) a evitare i due errori più comuni in cui rischiamo di arenarci quando mettiamo mano a una ricetta. Prima di procedere però, dovremo tenere presente che la difficoltà di questa ricetta: la capacità di disossare il volatile.
Il primo errore è quella che Sennett definisce denotazione inerte, non trovando in pratica un parallelo visivo nelle illustrazioni delle istruzioni per il fai-da-te, o nella serie di comandi (recidete, mantecate, scalzate ecc.) che più che spiegare il processo lo nominano solamente, abbiamo semplicemente l’illusione di poter portare a termine il nostro compito, se in precedenza non ne abbiamo fatto già esperienza. L’altro errore si nasconde nel sapere tacito: le cose che conosciamo ci sono così familiari da indurci a dare per scontati i riferimenti mentali a cui li associamo e a presumere che gli altri abbiano i medesimi riferimenti. La sfida è quella di abbattere entrambi questi estremi. Vediamo ora come hanno affrontato il problema le nostre tre cuoche.
Julia Child
Come accennato, la difficoltà di questa ricetta risiede principalmente nella difficoltà del disossidare il pollo, è quindi interessante notare come, nel descrivere i passaggi salienti di questa operazione, la Child si prefiguri il disagio dell’aspirante cuoca di fronte al pollo e la ammonisce “[…] orientate sempre il filo della lama contro l’osso, mai contro la polpa”. La Chid lo sa, il disastro è sempre dietro l’angolo. Proprio per questo il suo programma televisivo “The french chef” era stato studiato in modo tale da privilegiare l’uso del primo piano per seguire i movimenti delle mani da un passaggio all’altro. Allo stesso modo, i disegni che illustrano il suo libro si concentrano sui procedimenti più difficili che le mani devono affrontare. Nessuna direttiva precisa, la Child racconta una ricetta che è strutturata intorno all’empatia per la cuoca. E’ la cuoca a essere protagonista, non la ricetta. Il linguaggio che utilizza è ricco di un particolare tipo di analogia: quella per approssimazione. Una scelta che ha un motivo ben preciso: se descrivo che tagliare i tendini del pollo è tecnicamente simile a recidere un pezzo di spago, attivo una particolare modalità del cervello: il “come se”, che mi aiuta a far lavorare bene insieme cervello e mano, favorendo la concentrazione di entrambi sull’azione in sé. A favore di questo tipo di analogia gioca anche il fattore emotivo: l’idea suggerita che un gesto nuovo assomigli approssimativamente a un gesto già eseguito in precedenza favorisce la fiducia in se stessi. Julia Child, da esperta, guida la novizia cuoca prefigurandosi quelle che saranno le sue difficoltà; empatia e prensione si uniscono, dando vita a un metodo di insegnamento basato sulla simpatia, intesa nel suo senso di condivisione comune di un vissuto.
Elizabeth David
In pratica la missione che Julia Child si è assunta per la cucina americana è la medesima che fa sua Elizabeth, solo che la esporta in Inghilterra subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Indignata dalla situazione miserevole in cui versava la cucina inglese, dove il cibo più che cucinato veniva maltrattato e mal considerato, la David decide di insegnare ai propri compatrioti a conoscere gli alimenti di paesi lontani, ma anche a cucinarli come si fa all’estero. L’approccio di questa scrittrice alla ricetta del pollo alla d’Albufera si differenzia subito dalla scelta del volatile, gli preferisce subito la gallina, e una gallina particolare: una gallina della campagna del Berry. Siamo ad anni luce dalla Child, Elizabeth David sceglie di insegnare la tecnica culinaria attraverso l’evocazione del contesto culturale. La ricetta diventa quindi un vero e proprio racconto di come questa vecchia e coriacea gallina si trasformi da volatile posato su un banco del pollivendolo in uno squisito e tenero animale adagiato nel suo morbido nido di riso e prezzemolo. Tutto viene descritto, iniziando dal cuoco (del Berry anche lui ovviamente) che si chiede cosa fare delle vecchie galline ormai non più in grado di fare uova, al suo tastarne le carni mentre immagina gli ingredienti migliori per la farcitura “[…] il maiale e il vitello macinati che dovranno formare l’impasto sono abbastanza delicati? […] Gli ingredienti, ammorbiditi con brandy, vino e brodo di vitello, verranno spalmati sotto la pelle della gallina” e poi infine, ci si prefigura la cottura “[…] un sobbollire lento, lentissimo, a fuoco dolce, la gallina in un bagno di brodo profumato con timo, prezzemolo e una foglia di alloro”. La David racconta una ricetta, persa per il suo amore verso l’esotico (che sia stata una delle prime antropologhe alimentari della storia?), convinta che l’unico modo per cucinare bene è immergersi completamente nei luoghi dove la ricetta trae origine, immaginando di viverci, cucinando come gli abitanti del luogo. La nostra scrittrice si affida alla narrazione scenica, in cui il “dove” prepara le condizioni per il “come”, arrivando a costeggiare l’argomento senza dare direttive specifiche. Il problematico compito di disossare la gallina è presto risolto: la David esorta il lettore a pretendere che sia il pollivendolo a fare il lavoro per lui! Più che insegnare a cucinare, la nostra scrittrice vuole insegnare a pensare in maniera gastronomica, arrivando quasi del tutto a eludere le tecniche in questo modo. Il vantaggio c’è, ed è da ricercarsi in questa sorta di affabulazione nella quale la ricetta diventa un racconto con un inizio (gli ingredienti crudi), uno svolgimento (la loro combinazione e cottura) e una fine (il pasto).
Madame Benshaw
Quest’ultima cuoca non è un personaggio famoso, se non nel ricordo affettuoso di Richard Sennett, essendo stata la sua insegnante a un corso serale di cucina. Sennet la ricorda come una cuoca straordinaria, in grado di padroneggiare alla perfezione la cucina francese, italiana e persiana. Già, persiana, perché madame Benshaw approdò negli Usa, in fuga dall’Iran, nel 1970. Questo spiega molto del suo modo di insegnare, perché, nonostante abbia passato tutta la sua vita, fino alla morte, in America, il suo inglese è stato sempre molto scadente. Da qui il motivo che l’ha portata a insegnare più che altro attraverso l’esempio pratico, accompagnato da piccoli sorrisi o enfatiche espressioni del viso. Un metodo di insegnamento non molto funzionale se si tiene in conto che le sue mani lavoravano con una velocità tale da essere difficilmente imitabili da un neofita. Ragione che indusse suo allievo a chiederle di trascrivere la ricetta del pollo all’Albufera, in modo tale da correggerla e darla a tutti i partecipanti del suo corso di cucina. Sennett ricorda che madame Benshaw ci mise un mese intero per scriverla, e alla fine gli consegnò questo testo:
“Tuo bambino morto. Lo prepari per nuova vita. Lo riempi con la terra. Attenzione! Non deve ingozzare troppo. Metti al bambino il suo mantello d’oro. Gli fai il bagno. Lo scaldi ma attenzione! Un bambino muore per troppo sole. Gli metti i suoi gioielli. Questa è la mia ricetta”.
Questa è la traduzione che ne fa Sennett:
“Tuo bambino è morto [il pollo]. Lo prepari per nuova vita [disossare]. Lo riempi con la terra [il ripieno]. Attenzione! Non deve ingozzare troppo [mano leggera con il ripieno]. Metti al bambino il suo mantello d’oro . Gli fai il bagno [preparare il liquido di cottura]. Lo scaldi ma attenzione! Un bambino muore per troppo sole [la temperatura del forno: 130°]. Gli metti i suoi gioielli [la salsa di peperoni]. Questa è la mia ricetta”.
Madame Benshaw si affida completamente al potere della metafora per trasmettere la sua ricetta, una modalità tipica della cultura persiana. In questo modo la sua trasposizione diventa uno strumento potente per contemplare con intensità i processi implicati in ogni stadio della ricetta. Le metafore non ci stimolano a rifare a ritroso, passo dopo passo, il percorso per cui un’azione ripetuta è divenuta sapere tacito. Ma anzi, aggiungono una valenza simbolica all’intero processo, conferendogli un’indelebile fissità nella nostra memoria.
Tre donne, tre esempi diversi tramite i quali il linguaggio, espressivo e immaginativo, può essere messo al servizio di un fine pratico, in modo tale da guidarci in tutta l’esecuzione della ricetta. Una modalità di fare, e ragionare, che non riguarda solo la cucina. Le istruzioni espressive riconnettono il lato tecnico delle cose con la nostra immaginazione. Sennett le definisce “attrezzi linguistici” da impiegare in ogni campo del sapere. Quando cervello e mano sono allineati si apre un modo di possibilità dove il secondo passaggio è l’uso immaginativo degli attrezzi materiali… e qui si apre tutto un altro mondo.
Dal mio canto, se devo fare una scelta, mi trovo molto affine a Elizabeth David, non a caso ho la casa affollata di romanzi culinari…. e voi?
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