Quella che ci apprestiamo a trascorrere è una delle notti più magiche della tradizione popolare italiana, e non solo. E il cibo diventa importantissimo tassello di tutta la sua affascinante narrazione. Ma per capirne il perché, dobbiamo prima di tutto comprendere il legame del cibo con la festa dei defunti, oggi conosciuta più come Halloween.
Se guardiamo le vetrine dei negozi ci troviamo immersi in una festa guardata dai più con diffidenza: Halloween. Anziani e meno anziani scuotono la testa; abbiamo importato un’altra americanata. Ma ne siamo proprio sicuri? Ci infastidisce il lato consumistico, profano, di questa festa o l’aver “importato” un’usanza che non ci appartiene?
In realtà il culto dei morti e la festa dei defunti sono un retaggio molto antico, presente anche nelle nostre tradizioni. Basta rifarsi a qualsiasi calendario rituale contadino per capire l’importanza di due feste basilari per l’occidente cristiano: Ognissanti e la commemorazione dei defunti. Ambedue infatti cadono nel cuore dell’autunno, periodo in cui finita una stagione agraria ne inizia un’altra. Il grano è stato appena seminato, è “sceso negli inferi”, nel cuore della terra. Comincia il suo lento cammino verso la futura germinazione. Originariamente queste date combaciavano con il capodanno celtico, in Irlanda si chiamava Samain ed era preceduto dalla notte conosciuta ancora oggi in Scozia come Nos Galan-gaeaf, notte delle calende d’inverno, durante la quale i morti entravano in comunione con i vivi in un generale rimescolamento cosmico.
Il 1 Novembre, celebrava la morte di tutti i santi come il giorno della loro “nascita” (dies natalis), della loro vittoria sulla morte e della loro conseguente assunzione nella comunità divina. E’ in questo modo che si è cristianizzato il capodanno celtico senza contraddirne lo spirito; i santi sono i chicchi di grano scesi, nella stagione autunnale, nella terra per rinascere come piante in primavera.
Il tema della morte ci riporta quindi ad un culto dei morti antichissimo, a una festa che aveva soprattutto un linguaggio alimentare ben definito ed estremamente interessante. La sera della vigilia dei morti (che per noi cade la notte tra il 1 e il 2 novembre) si attuano tutta una serie di comportamenti collegati a cibi da consumarsi ritualmente, che manifestano il tipo di rapporto che i vivi intessono con i defunti; la presenza delle anime dei trapassati, la loro alleanza, la loro assistenza verso chi era in vita era giudicata indispensabile, perché dai morti nasce la vita come dai chicchi nasce il grano. Così mangiare determinati cibi permetteva di ristabilire, ogni volta, il legame con i defunti, recenti e passati, e far del bene alle loro anime, in vista della salvezza eterna, accorciando il tempo della loro pena.
Mangiare e pregare quindi. Il cibo infatti si poteva regalare ai vicini di casa, ai parenti, agli amici. Come ogni pietanza festiva, quella dedicata ai defunti si doveva necessariamente preparare, regalare, consumare in questa circostanza, secondo precise modalità. La cultura del dono era molto diffusa e rispettata, si donava quello che si faceva in casa, per abbondanza, per abilità, per tradizione, per rito. Queste preparazioni casalinghe, che marcavano la stagione propria di quel cibo e la loro preparazione rituale, sono ricette tradizionali legate simbolicamente alla ricorrenza religiosa, strumento formidabile per rinsaldare i vincoli di parentela e di amicizia. Così il piatto non tornava mai indietro vuoto, ma pieno sempre di qualcosa dello stesse genere che la famiglia ricevente poteva offrire.
Marcel Mauss definisce catena di reciprocità: il dare, il ricevere e il ricambiare. In definitiva un modello rituale alimentare che eccedeva il rigoroso calendario liturgico e che definiva annualmente la civiltà del dono quale tratto costitutivo del vivere comunitario. Le ricette hanno così il compito di generare, nutrire, favorire il dispiegarsi di un processo simbolico rituale che ha la funzione di redistribuire il patrimonio alimentare della comunità, di condividere le calorie necessarie per la sopravvivenza delle famiglie più povere e, nel contempo, risacralizzare ritualmente i rapporti comunitari che le stagioni avverse e i problemi quotidiani tendono ad allentare.
La commemorazione dei defunti ha, infatti, un compito bene preciso, sostiene Valerio Petrarca:
“il rito della festa dei morti è una risposta storicamente e culturalmente determinata a uno dei problemi più radicali e universali: cosa fare dei morti. Il fine ultimo è l’incorporazione simbolica più o meno concretamente o astrattamente intesa, dei morti all’interno della loro famiglia e della loro società. E per incorporare nella famiglia e nella società la memoria degli antenati non si sarà potuto immaginare sacrario più degno del ventre dei bambini, di chi si avviava a continuare quell’opera della natura e della cultura che la morte aveva interrotto. Morti e bambini erano gli agenti più prossimi di un’idea dell’esistenza modellata sulla ciclicità e sulla continuità della vita e della morte”.
Il cibo dei morti poteva essere consumato o meno dai vivi. Nel primo caso stabiliva con i morti un legame biunivoco: mangiato dai vivi li nutriva entrando nel loro corpo, ma nutriva anche i morti, salvando le loro anime. Nel secondo caso il cibo si lasciava ai morti, nella notte tra il 1 e il 2 novembre, nella certezza che questi tornassero nelle loro case per consumare il cibo preparato loro dai parenti. Da qui l’usanza, in varie regioni italiane, di imbandire una tavola completa la sera precedente il 2 novembre, lasciandola così per tutta la notte. In merito a questa tradizione l’antropologo Alfonso Maria Niola interrogò un po’ ironicamente una donna sul popolo, chiedendo lumi su questo mancata consumazione del cibo da parte dei defunti. La risposta non lasciava dubbi: “I morti non sono corpi ma anime, perciò mangiano l’anima del cibo, non il corpo”.
La diffusione di questa festa, in Italia, assume varie forme che si declinano dal regionale, al provinciale, al comunale… fino al familiare. Trattarle tutte in questo contesto sarebbe impossibile, mi limiterò quindi a tre regioni di cui ho diretta conoscenza: la Puglia, la Sicilia e la Calabria.
In Puglia regna sovrano il grano dei morti, una ricetta che sembra affondare le sue radici, secondo Luigi Sada, nel rito greco-bizantino, durante il quale si benediva il grano bollito che poi si consumava per i morti. Non a caso nell’area salentina questa ricetta si chiama colva o colua o coliba tutte varianti del bizantino kolba, in greco kollyba (frumentum coctum). La ricetta è molto semplice: 1 kg di grano tenero, mezzo litro di vincotto, una melagrana e 10 noci. Si lava il grano più volte e lo si mette a bagno per almeno due giorni, cambiando ogni tanto l’acqua. Si mette poi a cuocere a fuoco lento. Bisogna farlo bollire, salare e tenerlo in ebollizione per 20 minuti. Infine scodellarlo, eliminando bene tutta l’acqua di cottura, e condirlo con il vincotto, i chicchi di melagrana e i gherigli di noce a pezzettini (negli ultimi anni si sono aggiunte anche le scaglie di cioccolato). Va servito sia caldo che freddo, e conclude il pasto in onore dei defunti. Nella stessa Puglia di riscontrano varianti di questa ricetta.
E’ viva ancora l’usanza, in tutta la regione, di lasciare imbandita la tavola con pane, vino, acqua (perché i morti possano dissetarsi dall’arsura delle fiamme del purgatorio) e qualche pietanza familiare. A Terlizzi (BA) troviamo invece la “Quarticedde” una pagnotta preparata e consumata durante il giorno dei morti. Si tratta di un pane rituale caratterizzato dall’essere la quarta parte del peso che aveva il pane fatto in casa, farcito con ricotta forte, tonno (o alici salate), il tutto condito con pepe e peperoncino. I contadini che si recavano alla messa delle tre di mattina portavano con sé questa pagnotta, che veniva benedetta prima di poter essere consumata. Incuriosisce la scelta di un piatto dai sapori così forti, tanto che il suo nome dialettale è “ashkuand” ovvero “bruciante”. La sua funzione era quella di portare refrigerio, suffragio alle anime del purgatorio. Il ragionamento che stava dietro a questo concetto è presto svelato: il devoto, mangiando del fuoco (così’ veniva inteso il cibo piccante), lo sottraeva alle anime che ne erano immerse, portando loro sollievo.
La pasticceria, in onore dei defunti, era contemplata dai Sassanelli, dolci con mandorle e vin cotto, farina e zucchero e dai famosi ossi dei morti, biscotti dal colore e dalla consistenza delle ossa umane, a base di mandorle, acqua e farina.
La festa dei morti, in Sicilia, era per i bambini come aspettare la befana; i morti infatti portavano, la notte tra l’1 e il 2, giocattoli e dolciumi. Era una vera e propria strenna anticipata, che metteva in contatto gioioso i morti con i componenti più piccoli della comunità, che in questo modo si abituavano a pensare i defunti come spiriti benefici che in quella notte particolare uscivano dai sepolcri e si muovevano a schiere verso i paesi portando dolci e giocattoli. In questo modo si allontanava la paura della morte dai bambini, esorcizzandola attraverso l’atmosfera della festa e i doni.
La tradizione palermitana prevede inoltre che ogni famiglia preparasse “u cannistru” ovvero un cesto con i dolci tipici della festa dei morti e frutta secca (di solito comprati alle bancarelle della fiera dei morti) che viene messo a tavola dopo il pranzo del giorno dei morti. L’elemento centrale del cesto è “u pupu ri zuccaru” un pupazzo di zucchero che rappresenta tradizionalmente i paladini di Francia o una ballerina, di altezza variabile tra i 20 e i 50 cm e dipinto con colori accesi e svariati decori.
Altro elemento importante del cesto è la frutta martorana, dolcetti di pasta di mandorle chiamati pomposamente “pasta reale” per la ricchezza dell’impasto. Oltre che buoni sono bellissimi da vedere modellati come sono in perfette imitazioni di frutta di ogni genere. Una delle tante leggende sull’origine della frutta martorana racconta che è stata realizzata dalle Monache del convento di Santa Maria dell’Ammiraglio, a Palermo, un convento realizzato per le nobildonne dell’ordine di San Benedetto e voluto dalla nobildonna Elisa Martorana (da cui presero il nome).
Si narra che all’interno del monastero le suore avessero creato uno dei giardini più belli della città e un orto con buonissime verdure. Il Vescovo, incuriosito, decise di andarlo a visitare approfittando del suo status. La visita, però, fu in pieno inverno, quando gli alberi erano spogli e l’orto non dava molti ortaggi. Le monache allora decisero di cerare dei frutti colorati con la pasta di mandorla per addobbare gli alberi spogli, e creare degli ortaggi per abbellire l’orto. In questo modo è nata la frutta martorana con coloratissimi mandarini, arance, melograni, limoni, zucche, carciofi ecc. Le monache, visto il successo avuto, iniziarono a preparare la frutta martorana per le famiglie ricche della città.
Antonino Buttitta, a proposito della festa dei morti in Sicilia, comparando la tradizione di preparare i famosi pupi di zucchero (insieme a tutta quella serie di dolci come la frutta martorana, ossi e teschi), con usi simili nella maggior parte delle regioni italiane, chiarisce come il nome stesso che si da a questi cibi rituali derivi dall’espressione “mangiare i morti”. Lo studioso lo interpreta come
“Un tipico esempio di patrofagia simbolica […] se teniamo conto del fatto che la notte del 2 novembre, oltre a dolci antropomorfi, in Sicilia ne vengono preparati anche non figurativi, assieme a cibarie di varia natura, si potrebbe concludere, sulla base degli usi testè ricordati, che gli uni rappresentano il cibo dei morti, gli altri i morti stessi. Mangiano, quindi i morti, ma a loro volta vengono anche ritualmente mangiati“.
Seguono poi i tutù o tetù, biscotti con due diverse glassature, bianca o al cacao, i mustazzola che rappresentano gli ossi dei morti, e i taralli, ciambelle di biscotto coperte di glassa di zucchero. Molte di queste ricette si basano sulla pasta al garofano, un impasto di farina, acqua, zucchero e chiodi di garofano.
Fino al 1968, anno del terremoto che distrusse la maggior parte delle case con il forno a legna dei paesi della Valle del Belice, a Salemi era tradizione in occasione della commemorazione dei defunti del 2 novembre confezionare e distribuire ai poveri che affollavano la piazza antistante il cimitero, pani a forma di braccia incrociate chiamati “manuzzi” o “pani di morti” al fine di rallegrare le a nime dei defunti. Il salato in Sicilia ha la sua apoteosi, durante questi festeggiamenti, con il ragù di carne e maiale, e zuppe a base di legumi, tra cui spiccano le fave e i ceci.
In Calabria, l’offerta di cibo e bevande ai defunti si rinviene, nel passato, in diverse comunità mentre è ancora comune, un po’ dappertutto, l’uso di donare alimenti ai poveri, che sono considerati i vicari dei morti. Scrive, ad esempio, Padula che nel corso della panificazione si fa pure la “Pitta del morto; vale a dire che la donna, se perde un marito o un figlio, fa la focaccia per essi, e poi la dona ai poveri”. A Laureana di Borello il 2 novembre, in quasi tutte le famiglie, in suffragio delle anime dei loro defunti, si fa l’elemosina ai poveri che si presentano a domandarla e si danno loro fichi secchi, noci, castagne, pane e soldi. In ogni regione d’Italia dove la tradizione si è mantenuta più viva o comunque della quale si è conservato il ricordo c’è comunque la credenza che la notte del 2 novembre i morti passino in processione per le città o nei paesi, da qui l’abitudine da parte dei parenti, di preparare del cibo che viene lasciato sul davanzale delle finestre, in modo che al passaggio dei defunti questi possano cibarsene.
Trovo molto bella, a mio parere, questa riflessione di Ottavio Cavalcanti:
“La tavola è dunque il luogo non unico, ma privilegiato, dove siderali distanze temporaneamente si annullano; il colloquio si intensifica o riprende; lo scandalo della morte è riassorbito e scongiurato; rapporti familiari e amicali si rinsaldano“[…] Bisogna propiziarsi i defunti, mostrare loro il proprio amore e la propria venerazione. Ma questo è ancora poco: bisogna sostenerli dando loro da mangiare, da bere e di che scaldarsi; bisogna banchettare con loro, lasciare loro cibo sulle tombe, e fare libagioni di vino, versare burro fuso. Ma anche questo è poco. Bisogna garantire loro non solo la vita ma anche l’immortalità. Bisogna rendere partecipi del ciclo vita-morte-vita che caratterizza la natura e che è necessario all’agricoltore”.
E così, durante la commemorazione dei defunti, la tavola è affollata di presenze inquietanti ma al contempo rassicuranti.
Credenze ed usi comuni di questo genere si ritrovano in tutto il mondo: banchetti e offerte alimentari per i defunti sono presenti lì dove c’è stata una forte impronta agricola; la commemorazione dei defunti connessa con banchetti, cibi rituali e pranzi commemorativi è infatti una costante delle feste e dei riti della cultura contadina. Tra le varie usanze presenti nel mondo, due mi hanno colpita (ma sono tantissime): el Día de los Muertos (Giorno dei Morti) che si festeggia in Messico (festa considerata Patrimonio dell’Umanità dall’UNESCO), la seconda è legata a un particolare tipo di pane, il Lavash (anche qui protetto dall’UNESCO), comune a molti paesi come la Turchia, l’Iran, il Kazakistan, il Kirghizistan e l’Armenia.
Le festa dei morti messicana è celebrata posizionando offerte di cibo, fiori e candele lungo la strada dal cimitero alla casa del morto, e sulla sua tomba si banchetta allegramente. Mentre nei funerali, in Kazakistan, si crede che il pane debba essere preparato per proteggere il defunto mentre dio ne giudica la condotta in vita. In Kirghizistan, invece, la condivisione del pane, tra i membri della comunità, assicura al defunto una vita migliore nell’aldilà.
Nel 1987 il comune di Torino invitò i cittadini ad adornare le tombe con fiori, messi a disposizione gratuitamente dell’amministrazione, e mandò la banda dei vigili urbani nei cimiteri, invadendo così di musica e colori luoghi troppo spesso considerati lugubri. L’intento era di far rivedere in essi il legame con le nostre radici, luoghi che contengono chi ci ha preceduto e ci ha trasmesso le tradizioni, i valori e la cultura su cui si basa la nostra comunità.
Non sarebbe il caso di sperimentare nuovamente l’iniziativa torinese, o di conoscere meglio le altre tradizioni relative al legame con i morti, invece di imprecare contro Halloween?
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