World obesity day 2018: obesità e antropologia [parte 1]

Quest’anno il World obesity day si è svolto l’11 ottobre, purtroppo per problemi tecnici al sito non ho potuto pubblicare in quel giorno le mie riflessioni sullo stretto rapporto che esiste tra cultura e obesità e, tra questa e l’importanza di una buona educazione alimentare, partendo dalla ristorazione.

Ogni anno la campagna ha un tema, il tema del 2018 è “End Weight stigma”. Lo stigma del peso si riferisce ai comportamenti e agli atteggiamenti negativi che sono diretti verso gli individui soltanto a causa del loro peso, ed è una delle ultime forme socialmente accettate di discriminazione. Se si vuole porre fine allo stigma dell’obesità, è importante adattare la nostra lingua e gli atteggiamenti, sensibilizzare e migliorare le nostre conoscenze sul suo grande impatto sociale.

Ho deciso quindi di suddividere l’ articolo in due parti: la prima dedicata all’impatto che i comportamenti
alimentari hanno sulla salute e l’aspetto fisico, chiamando in aiuto una nutrizionista, la dottoressa Valentina Viti e, nella seconda parte (che pubblicherò tra qualche giorno), ho intervistato invece Nicoletta Polliotto, esperta di Food & Restaurant marketing, capace di fornirmi una panoramica lucida sul ruolo che la ristorazione può avere nel veicolare una concezione salutistica del cibo.
Ma prima di procedere con le rispettive interviste, facciamo un po’ il punto della situazione sull’obesità a
livello mondiale.

 

Obesità canaglia
L’obesità non è più solo un problema del mondo sviluppato. Dimentichiamoci i vecchi clichès che vedono le persone dei paesi poveri andare a letto senza cena. Oggi la maggior parte di queste persone, nel mondo sottosviluppato, va a letto, ogni notte, dopo aver ingerito troppe calorie, una situazione che sottolinea il ritmo vertiginoso dei cambiamenti alimentari nel nostro pianeta. Un rapporto dell’ Overseas Development Institute (ODI), ha rivelato che più di un terzo degli adulti nel mondo sono in sovrappeso – e che quasi due terzi delle persone in sovrappeso nel mondo si trovano nei paesi a basso e medio reddito. Il numero di persone obese o in sovrappeso nei paesi in via di sviluppo è passato da 250 milioni a quasi 1 miliardo in meno di tre decenni, e questi tassi sono in aumento in maniera significativamente più veloce che nelle nazioni ricche.

Risultati meno confortanti sono emersi in uno studio del Lancet sull’obesità mondiale pubblicato nel
2014 (ma in costante aggiornamento) che ha analizzato i dati, provenienti da 188 paesi, in un arco di 33
anni. Lo studio ha riscontrato che l’aumento dei tassi di obesità a livello mondiale è stato “rapido,
consistente e diffuso, diventando così un focus importante per la salute pubblica sia nel mondo sviluppato
che in via di sviluppo”.

… E obesità culturale
Studi antropologici hanno evidenziato come l’etnia sia fortemente legata a differenze religiose, preferenze e comportamenti legati al cibo. In molti paesi del mondo questo si traduce in una mancata medicalizzazione dell’obesità, perché essere considerati grassi è legato a canoni estetici approvati socialmente. Il concetto di obesità, e le sue differenti costruzioni sociali, può essere capito solo attraverso un attento lavoro di comprensione culturale su come il peso corporeo, e le varie credenze sociali su cosa sia la salute e cosa la malattia, influenzino etnia, genere e genetica.

Ecco perché nonostante l’obesità sia identificata come una delle più critiche sfide contemporanee per la
salute pubblica, gli interventi standard per affrontarla sono spesso falliti e il suo tasso, sia infantile che negli adulti continua a crescere in tutto il mondo. Teorie culturali, bioculturali ed ecologiche aiutano a spiegarne sia l’aumento sia la sua resistenza a qualsiasi soluzione facile. Le teorie sociali forniscono prospettive critiche sulla medicalizzazione dell’obesità e sfidano le visioni pervasive che la trattano come un segno di debolezza morale individuale.

Prendiamo un esempio pratico: le Isole di Cook. Il record mondiale dell’obesità appartiene a questo
arcipelago dell’Oceano Pacifico meridionale dove il tasso di obesità arriva quasi al 51% della popolazione, seguito dalla Repubblica di Palau (47,6%) e dalla Repubblica di Nauru (45,6%). Uno studio pubblicato anni fa sulla rivista Pubblic Health Nutrition e condotto dall’Università di Oxford suggerisce che i cambiamenti sociali, introdotti quando le isole erano sotto il dominio coloniale, hanno favorito abitudini alimentari scorrette. Per secoli gli abitanti delle isole sono stati pescatori e allevatori e fino ad allora si sono mantenuti in perfetta forma. Ma con l’arrivo dei coloni, dalla fine dell’Ottocento, la scoperta di giacimenti di fosfati e miniere di vario genere sulle isole e il loro conseguente sfruttamento aumentò la ricchezza (anche degli abitanti) e ne stravolse gli stili di vita.
I coloni insegnarono agli isolani a friggere il pesce, che smisero così di mangiarlo crudo. Pian piano anche la pesca fu abbandonata. Ma con l’esaurimento dei giacimenti, alla fine del secolo scorso, gli isolani persero ricchezza e molti di loro, non potendosi più permettere frutta e verdura fresca ne comprano oggi surrogata d’importazione, a basso costo ma decisamente poco sana perché molto calorica e poco nutriente come ad esempio le parti più grasse della carne di montone, importata dalla Nuova Zelanda.

Ad aggravare la situazione agiscono anche alcuni modelli culturali. I canoni estetici delle popolazioni del Sud del Pacifico sono infatti molto diversi da quelli a cui noi siamo abituati e sono diametralmente opposti perché lì, più si è grassi, più si è belli. Nessuno quindi è spinto a mettersi a dieta per piacere e piacersi di più.
Non possiamo curare l’obesità senza tenere conto delle molteplici sfaccettature che influenza a livello biologico e culturale. L’alimentazione umana, al di là del suo essere un bisogno naturale, è caratterizzata e pervasa da funzioni secondarie, vissuti psichici, connotazioni simboliche e valori e significati culturali, che condizionano il comportamento alimentare e rappresentano un quadro simbolico di riferimento.

Non a caso Paolo Scarpi ha definito i disturbi del comportamento alimentare come la risultante di una Patologia del sistema simbolico. E’ indubbio che per cercare soluzioni valide all’obesità, bisognerà lavorare sia sull’aspetto medico che su quello simbolico del problema. Un aspetto che dal suo punto di vista l’antropologia ha affrontato e sta affrontando, anche grazie alla sua capacità di farsi da collante tra le diverse discipline implicate in questo lavoro.

Il parere della nutrizionista

Valentina Viti

Proprio per questo ho deciso di intervistare la nutrizionista Valentina Viti; per avere un parere professionale, sia sull’aspetto medico che culturale relativo al fenomeno obesità, anche dal punto
estetico.

Valentina, in qualità di nutrizionista ti sei mai imbattuta nel dover consigliare una dieta in relazione al gruppo etnico di appartenenza del tuo paziente? Hai trovato difficoltà?

Si, diverse volte si sono rivolte a me persone appartenenti a gruppi etnici diversi, come ad esempio
provenienti da paesi dell’Europa dell’est (Romania, Bulgaria, Russia) ma anche cubani o sudamericani. In
linea di massima erano persone trasferite in Italia già da molti anni e nello stabilire un percorso alimentare
insieme non ci sono state particolari difficoltà avendo loro preso abitudini alimentari del nostro paese.
Molto spesso mi sono ritrovata a confrontarmi con i loro piatti della tradizione, le modalità della colazione, della preparazione dei pasti per ragionare insieme su ciò che avevano cambiato dall’arrivo in Italia, sulle difficoltà pratiche incontrate e reperire particolari cibi.

Come valuti la presenza, sempre più crescente, di un’accettazione della donna curvy nei mass media (penso alla modella Ashley Graham, per esempio)? Dove il curvy impatta con la salute?

In un mondo in cui l’immagine del bello si associa al magro, la presenza nei mass media di corpi femminili più curvy, più morbidi che superano la taglia 44 lancia una sfida a superare gli stereotipi classici che vengono mostrati in tv, giornali, film e social e che spesso influenzano troppo un pubblico più adolescente e più avido di accettazione rispetto ad un pubblico più adulto. Mostrare corpi curvy ci da un messaggio di bellezza femminile più realistico svincolato da un corpo troppo magro o da una taglia 42. L’eccesso di
tessuto adiposo e quindi il sovrappeso e l’obesità sono fattori di rischio perché possono causare infiammazione e quindi contribuire all’insorgenza di diverse patologie metaboliche come il diabete, l’ipertensione, le malattie cardiovascolari ma anche i tumori. Il tessuto adiposo rischioso è in particolar modo quello che si accumula nel girovita a contatto con gli organi interni. Il tessuto adiposo di gambe, glutei e fianchi , che da ad un corpo il tipico aspetto femminile, è un tessuto sottocutaneo non metabolicamente rischioso. Credo che l’equilibrio tra l’accettazione del proprio corpo e la consapevolezza del proprio stato di salute sia la via corretta per il singolo.

Pensi che l’Italia sia pronta dal punto di vista medico-scientifico a fronteggiare il problema
dell’alimentazione delle altre etnie presenti sul suo territorio? Avresti dei consigli da dare in merito?

Forse ancora non siamo pronti ad accogliere modelli alimentari diversi dal nostro, che invece rispettino le
tradizioni e le culture delle diverse etnie che decidono di vivere nel nostro paese. La dieta mediterranea è
nota per essere un modello alimentare salutare che previene molte patologie, ma è la dieta delle
popolazioni che vivono nel bacino del mediterraneo. Non ci può pensare che sia la dieta migliore per tutte
le etnie. Popoli diversi vissuti per tante generazioni in terre diverse dalle nostre, che hanno mangiato cibo
diverso dal nostro avranno bisogno di tanto tempo per adattarsi a cibi nuovi. Sarebbe molto importante
che in strutture pubbliche ci sia un attenzione alle tradizione alimentari di altri popoli, dai menù delle
mense a quelli ospedalieri, così come i singoli professionisti che si occupano di alimentazione non possono
non informarsi a riguardo. E’ una questione di rispetto e di aiuto all’integrazione. D’altronde a chi di noi
dopo un po’ lontani da casa non manca il cibo italiano?

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