Il 26 ottobre 2016 è stato pubblicato il Rapporto Censis sulle abitudini alimentari degli italiani. L’ho letto attentamente e sinceramente devo dire che mi sono scoraggiata.Ma guardiamolo prima di tutto per quelli che sono i suoi punti base.
Secondo il Censis nell’ultimo anno 16,6 milioni di italiani hanno ridotto il consumo di carne (in particolare di carne bovina), 10,6 milioni quello di pesce, 3,6 milioni la frutta, 3,5 milioni la verdura. Il tutto spesso sostituito con alimenti scarsamente nutrienti e iperelaborati, di prezzo più accessibile, ma a scapito della salute, fattore che si ricollega all’aumento delle malattie metaboliche (obesità, diabete, malattie cardiovascolari ecc. ecc.) che il nostro sistema sanitario si trova e si troverà a fronteggiare.
Questo avvilente risultato è dovuto alla recente crisi economica, partita dal 2007 e tuttora in corso, a mio parere. Sono infatti le famiglie meno abbienti a ridurre di più gli alimenti di base della dieta degli italiani. Secondo i dati Censis nell’ultimo anno hanno ridotto il consumo di carne il 45,8% delle famiglie a basso reddito contro il 32% di quelle benestanti. Per il pesce, il 35,8% delle meno abbienti e il 12,6% delle più ricche. Per la verdura, riducono il consumo il 15,9% delle famiglie a basso reddito e il 4,4% delle benestanti.
Siamo di fronte a un vero e proprio Food social gap (la disuguaglianza, a tavola, tra ceti poveri e ricchi) che ci riporta a un cliché storico: ai ricchi la carne (e il meglio) ai poveri tutto il resto.
Paradigmatico del Food social gap è proprio il consumo di carne. Nel periodo 2007-2015 hanno ridotto la spesa per acquistare la carne soprattutto le famiglie operaie (-20% in termini reali) e quelle con a capo un disoccupato (-26,7%), molto più che le famiglie con a capo un imprenditore (-15,5%). Per l’acquisto di carne bovina, in particolare, la spesa delle famiglie operaie si è ridotta nel periodo del 38,5%, quella delle famiglie dei disoccupati del 46,1%, quella delle famiglie degli imprenditori del 34,3%.
A nulla sembra richiamare la famosa dieta mediterranea, che nelle sue costituenti, si rifà proprio ai cibi poveri. La relativa la situazione di salute degli italiani è abbastanza compromessa se teniamo conto che i tassi di obesità sono più alti nelle regioni con redditi inferiori e spesa alimentare in picchiata. Infatti, nel Sud, con un reddito inferiore del 24,2% rispetto al valore medio nazionale e una spesa alimentare in caduta del 16,6% nel periodo 2007-2015, gli obesi sommati alle persone in sovrappeso arrivano al 49,3% delle popolazione, mentre al Nord (42,1%) e al Centro (45%), dove i redditi sono mediamente più alti e la spesa alimentare ha registrato una minore decrescita, le quote corrispondenti sono inferiori.
Ad aggravare la situazione, rileva il Censis, sono anche i tanti falsi miti alimentari in circolazione soprattutto sul web (e la scarsa educazione alimentare nelle scuole fuori, aggiungo io). Il Food social gap indica come a comandare sia – oggi – la diversa capacità economica degli italiani di acquistare i prodotti alimentari nelle quantità adeguate a costruire una dieta salutare.
E da tempo che rifletto su questi due estremi: il cibo slow e il cibo fast. Il primo eticamente accettabile ma troppo elitario nelle sue scelte di mercato, il secondo in grado si sfamare a poco prezzo tutti, ma eticamente e sanitariamente a dir poco devastante.
Allora qual è la giusta via di mezzo?
Come al solito le risposte migliori mi arrivano attraverso un libro, in questo caso “L’oro nel piatto” dell’economista e agronomo Andrea Segrè e Simone Arminio. E’ qui che Segrè parla di cibo medio e dell’importanza dell’educazione alimentare.
Per cibo medio intende quello non troppo alto e non troppo basso in termini di qualità e quantità, in grado di sfamare tutto il mondo.
Il cibo medio che ho in mente, vede, interviene proprio qui: quanti cittadini del mondo saranno in grado di diventare consumatori quotidiani di cibi eccellenti? E, molto più banalmente: quanti amanti del buon cibo sono in grado di assicurarsene una porzione al giorno, a pranzo e a cena? La coperta, molto spesso, è corta persino sui più accorti, che puntano più della metà del budget sui pochi prodotti di qualità e usano il resto del budget per risparmiare sui pasti quotidiani. E non diciamo che non è vero: nelle pause pranzo degli italiani, quasi mai c’è di mezzo uno chef pentastellato.
Le osservazioni di Segrè e i dati Censis combaciano. Non sarebbe allora meglio – come fa notare lo studioso – trovare la giusta via di mezzo tra la soddisfazione e il prezzo, tra la praticità e la qualità?
1 Reply to "Il Rapporto Censis 2016: gli italiani a tavola, tra Food social gap e salute"
Orazio 28 Novembre 2016 (20:29)
molto banalmente mi viene da pensare che ancora una volta sia questione di educazione, alimentare in questo caso, versus bombardamento mediatico..proprio qualche sera fa, in fila alla cassa di un discount la signora davanti a me ( probabilmente appartenente alla fascia dei “nuovi poveri”) aveva un carrello intero pieno di “junk food” apparentemente sarà stato anche economico ma sicuramente nocivo alla salute e molto probabilmente allo stesso prezzo sapendo manipolare gli alimenti avrebbe potuto comprare delle materie prime di gran lunga superiori per preparare dei piatti di gran lunga più salutari e ugualmente gustosi.